Je vous salue, Marie - Ronchamp,1955
Foto di Paolo Danise

Je vous salue, Marie - Ronchamp,1955

diTeresa Mariniello

Costruendo questa cappella,

ho voluto creare un luogo di silenzio, di preghiera, di pace, di gioia interiore. Il sentimento del “sacro” animò la nostra fatica. Certe cose sono sacre, altre no, siano esse o non siano religiose.

                                                                                                                                        L-C     25-6-55



Queste le parole con cui Le Corbusier consegna la sua opera all’arcivescovo di Besançon e alla comunità. All’inizio l’architetto francese, si era mostrato piuttosto riluttante ad accettare l’incarico non avendo mai progettato prima un edificio religioso ed essendo un uomo decisamente agnostico.

Ma mentre si trova sulla sommità della collina di Ronchamp e la percorre in lungo e in largo, sente la sacralità antica del luogo, “vede” le masse dei pellegrini recarsi nel tempo alla cappella storica della Vergine Maria, osserva i resti della stessa distrutti durante la seconda guerra, e decide di accettare.

L’idea che è alla base, e leggibile nell’opera, è il rapporto col luogo, col suo paesaggio ondulato, con le chiome degli alberi e la leggerezza dei venti. È un ricorso anche ad altre forme naturali, viste o scoperte altrove che hanno acceso la meraviglia in sé stessi e che possono far esprimere il sacro.

La forma della cappella è caratterizzata dall’uso di superfici curvilinee possenti e leggermente inclinate su cui poggia un grande tetto a forma di conchiglia, o meglio, di guscio di granchio rovesciato. L’oggetto raccolto da Le Corbusier tempo addietro, sulle spiagge dell’oceano e conservato sul suo tavolo di lavoro, è ora usato per la sua forma estremamente morbida e vicina alla natura.

  

All’interno un’unica e grande navata accoglie i fedeli e nello stesso tempo si apre al verde che circonda la collina e che diventa parte del complesso per quelle funzioni rivolte a un gran numero di fedeli. Un sagrato infine.

Si sporge verso l’esterno anche la settecentesca statua lignea della Vergine, oggetto di culto importante e venerato. Posta alle spalle dell’altare maggiore può ruotare su sé stessa, accogliendo secondo le necessità, i pellegrini dentro o fuori.

Del resto il percorso interno della chiesa, anche se espanso, punta verso Lei. Le vetrate all’interno delle finestre strombate recano disegni di uccelli e stelle marine, e parole come: la mer, ma soprattutto piccole frasi che diventano saluti: “bénie entre toutes les femmes”, “je vous salue, Marie”.

Sul possente muro, che si spinge anche all’esterno includendo il sagrato, la strombatura invertita delle finestre crea un’illuminazione puntiforme, simile a quella di un cielo stellato; del resto la cappella sorge in un piccolo paese di campagna dove il cielo di notte è simile all’ immagine che l’architetto vuole suggerire, come non è da dimenticare il manto della vergine, spesso stellato per richiamare la volta divina, dimora della spiritualità.

Ma, al di là di queste facili similitudini è la suggestione che se ne ricava da questi punti di luce; bucano le pareti e l’animo umano, fanno intravedere qualche spiraglio del mistero del sacro.


Così la lama radente di luce che si insinua tra il tetto staccato dalle pareti e il forte spessore delle stesse espande l’involucro, lo riempie di spazialità vibrante annullando l’angolo retto tra verticale e orizzontale. 

Oltre la navata centrale, tre piccole cappelle laterali trovano spazio in torri semicilindriche con apertura in alto perché la luce possa inondarle appieno.

La ricerca della luce nell’architettura sacra è nota; basta ricordare i templi greci con la statua del dio, nel naos, rivolta a oriente, lì dove si annuncia il sole. Così le grandi vetrate policrome e intarsiate delle cattedrali gotiche, catturavano luce per espandere lo spazio, su, in alto, e illuminare, nello stesso tempo, anche i racconti degli avvenimenti biblici. La luce non è solo funzione, è vita, aspirazione, visibilità, lì dove abita l’invisibile. Fuori e dentro noi. 

Le Corbusier aveva trascorso molto tempo, tra il 1907 e 1911, in paesi come la Grecia e la Turchia per studiare il Partenone e le grandi moschee. Schizzando tra le rovine e prendendo appunti sui suoi taccuini voleva apprendere l’armonia delle parti col tutto, il rapporto col luogo, i sistemi costruttivi con la soluzione adottata, che avevano permesso costruzioni di manufatti che sfuggivano il loro tempo

presente per diventare fonte d’ispirazione. Per essere infine “il gioco sapiente dei volumi sotto la luce”, come lui amava definire l’architettura.

A quegli esempi classici, che niente avevano a che fare con cambiate liturgie e funzioni d’uso, ha attinto per realizzare l’ambizioso progetto di creare un luogo di silenzio e di luce, dove la preghiera trovasse agio e possibilità di dialogo col sacro. Raggiunge ciò che definisce lo “spazio ineffabile”, vivo e pulsante ancora oggi.



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