L'innocenza perduta
Elio Scarciglia, Cappella Baglioni di Spello, I volti del Pinturicchio

L'innocenza perduta

diFloriana Coppola

A volte succedono coincidenze incredibili che fanno pensare, se riusciamo e vogliamo leggerle. Sono partita per Venezia con in borsa il saggio di Edmond Jabès, Dal deserto al libro, e il film che volevo vedere alla Biennale era Innocence di Guy David. Due intellettuali ebrei che raccontano e si raccontano attraverso diversi codici espressivi, affermando l’importanza di educare al dubbio e al pensiero critico e non dogmatico. 

Innocence racconta la storia di alcuni bambini che, ormai adolescenti, hanno resistito all’arruolamento militare obbligatorio in Israele. Sono morti in servizio, si sono suicidati. Le frasi dei loro inquietanti diari ci trascinano drammaticamente dentro il loro profondo disagio,  descrivono il loro sconvolgimento interiore intrecciando le immagini militari del loro addestramento, con flash dall’infanzia fino al servizio di leva obbligatorio. Il regista utilizza in modo magistrale i video amatoriali dei soldati deceduti, le cui storie sono state messe a tacere, essendo considerate una minaccia nazionale. Le frasi dei diari scorrono in basso mentre si vedono i soldati muoversi lentamente come formiche nel  deserto. Struggente frattura tra la sensibilità dei giovani e la spietata realtà del campo militare. I bambini israeliani vengono costretti a un bombardamento educativo compulsivo, per renderli aderenti alla logica militarizzata di una difesa armata, che diventa poi istigazione istituzionale a uccidere. Dalla scuola materna fino alle superiori, lo Stato con la complicità di docenti e di educatori addestrati organizza un martellamento massmediatico e didattico, che abbatte e distorce la dolcezza dell’infanzia, L’innocenza va perduta giorno per girono, inculcando l’idea che il nemico va distrutto, ucciso, annientato. Nessuno spazio bisogna dare alla comprensione, alla compassione e alla condivisione cosmopolita della terra. Difesa del territorio e dei confini, l’altro come minaccia assoluta da contrastare con le armi. Armi che vengono messe nelle mani di bambini e di adolescenti in presenza di genitori compiacenti, tutti ignari che quel gioco in pochi anni si deve trasformare in una tragica realtà. Una società militarizzata cresciuta con il mito identitario di una fortezza inespugnabile da salvaguardare. Le immagini che il regista monta sapientemente lasciano sconcertati e senza fiato per la durezza dei messaggi inviati ai bambini. 

“Disegnate il vostro nemico, disegnate le armi con cui  ucciderete il terrorista, disegnate la salma del soldato morto con fierezza per la patria”. 

Sembra di ascoltare i poemi omerici di guerra ispirati a una epica di morte e di vendetta, ma sono filmati contemporanei che danno nutrimento alla logica infernale del mercato delle armi. Guy David ha dovuto lasciare il suo paese, vive in Danimarca dove ha trovato persone illuminate che hanno finanziato il suo film. Non sappiamo se avranno la forza economica per una distribuzione europea ma spero vivamente che ci riescano. 

Assurdo e vergognoso come un popolo che ha subito un evento tanto drammatico come l’Olocausto sia costretto da uno Stato aggressivo e militarizzato fino ai denti, a infliggere lo stesso trattamento a coloro che considera ospiti indesiderati. Bisogna sempre distinguere tra i poteri politici ed economici dello Stato e la complessità di un popolo. E proprio all’interno di questa complessità, il libro di Jabès si pone come monito esemplare di una coscienza diversa, sulla stessa linea culturale e politica di Guy David. Il flusso dell’esistenza viene colto e fissato dalla scrittura per un solo istante. La ricerca dello Spirito e un desolato nichilismo si toccano nella parola poetica.

Nomade o marino, sempre, tra lo straniero e lo straniero, c’è – mare o deserto – uno spazio delineato dalla vertigine alla quale l’uno e l’altro soccombono.
Viaggio nel viaggio.
Erranza nell’erranza.
L’uomo è, innanzitutto, nell’uomo, come il nocciolo nel frutto, o il grano di sale nell’oceano.
E, tuttavia, è il frutto. E, tuttavia, è il mare

Edmond Jabès, scrittore ebreo di origine, di nazionalità italiana, cresciuto in un paese arabo, di madre lingua francese; antifascista, costretto poi all'esilio in Francia, parla nei suoi libri del suo essere straniero errante. Nella sua scrittura il deserto è metafora esistenziale, contemplazione del Tutto, segno di un’inquietudine profonda, spazio senza tempo, consapevolezza del vuoto. Luogo della presenza nell’assenza. L’esilio, l’erranza talmudica, il bisogno incessante di interrogarsi senza darsi una risposta sono i suoi temi ricorrenti. Scrivere significa interrogarsi sempre. Con il linguaggio si segna questo cammino, si indica la domanda e non si offrono risposte in un continuo movimento a spirale. Per Jabès  la mano è il simbolo della materia che si trasforma, crea un ponte con l’invisibile, è scambio e metamorfosi della condizione umana. E’ cura e spessore dell’ombra, di ciò che non si può afferrare. E’ comunicazione, eppure evoca il silenzio nel deserto e una insondabile e  inquieta solitudine.

Sono un silenzioso. Mi chiedo, grazie al passo indietro che faccio, adesso, con la mia vita, se questo gusto pronunciato per il silenzio non abbia la sua origine nella difficoltà che, in ogni tempo,

fu la mia, di sentirmi in qualunque luogo.
Prima di conoscere il deserto, sapevo che era il mio universo. Soltanto la sabbia può accompagnare una parola muta fino all’orizzonte.
Scrivere sulla sabbia, all’ascolto d’una voce d’oltre-tempo, i limiti aboliti. Voce violenta del vento dove, immobile, dall’aria, questa voce ti tiene testa. Ciò ch’ella annuncia è ciò che ti assale o schiaccia.
Parola delle abissali profondità di cui voi non siete che l’inintellegibile brusio; la sonora o l’inaudibile presenza.
Se occorresse una immagine al Niente, la sabbia ce la fornirebbe.
Polvere dei nostri legami. Deserto dei nostri destini.


Il deserto è il luogo concreto del vuoto, è la pagina bianca dove oscilla il poeta tra segno e assenza. La parola non domina la realtà ma traccia il suo fallimento. E’ in questa apertura verso il nulla che l’autore sceglie il suo percorso di individuazione. Essere ebreo e scrittore coincide in questo punto: la coscienza di una interconnessione profonda tra gli uomini, la natura e la ricerca di Dio. La sua amicizia con gli scrittori francesi, Gide, Soupault, Michaux, Caillois, Bounoure gli consentono di interagire, conoscere e confrontarsi con tanti linguaggi, non rimanendo confinato dentro un unico paradigma politico e culturale. L’esilio è la rivelazione del suo destino profondo, che coincide con il destino collettivo degli Ebrei. Un senso di sradicamento, di non appartenenza e di spaesamento ispirano i suoi libri. Jabès, influenzato da Jacob e dai surrealisti, acquista un tono sempre più meditativo, una cifra prettamente personale e originale. Mette a nudo la sua ferita, radice possente e antica: passione della scrittura, amore e resistenza della parola, dove il soggetto e l’essere ebreo diventano una cosa unica. Nei suoi versi, frasi di rabbini immaginari si fondono con idee e enunciati lontani dalla religione ortodossa. 

Ho lasciato una terra che non era la mia,
per un’altra, che più non è.
Mi sono rifugiato in un vocabolo d’inchiostro, avendo il libro per spazio,
parola di nessun luogo, quella oscura del deserto.
Non mi sono coperto la notte
Non mi sono protetto dal sole.
Ho marciato nudo.
Da dove venivo non aveva senso.
Dove andavo non inquietava nessuno.
Dal vento, vi dico, dal vento.
E un po’ di sabbia nel vento

 Una memoria di voci del passato, che si intreccia con la consapevolezza di una profonda diversità filosofica. Nessun dogma, nessuna verità espressa come assoluta ma un cammino verso il dubbio. Infatti nella Torah non vi sono domande e risposte ma una dialettica infinita, un andare e ritornare sui concetti che replicano il movimento dell’uomo che cerca se stesso e il suo baricentro. Un ebraismo che celebra l’erranza e il silenzio di Dio. Due ebrei intellettuali che indicano la via di una profonda pacificazione interiore attraverso l’arte e le sue forme. La poesia e il cinema, l’arte e la scrittura, antidoti contro ogni forma di violenza e di assolutismo ideologico, quando nascono da una lezione autentica di amore e di rispetto verso la vita e le sue creature.

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