La parola che incontra la resistenza dell'aria
Foto di Giancarlo Baroni

La parola che incontra la resistenza dell'aria

diMarcello Verdenelli

L’ultima raccolta poetica di Piergiorgio Viti dall’emblematico e direi molto funzionale titolo Quando l’aria aveva paura di Nureyev, chiaro riferimento a una figura-icona della danza moderna, si snoda lungo una direttrice che dichiara, sezione per sezione, in una sorta di progressione tematica lo stato di insufficienza, di precarietà della parola poetica. Condizione che, come precisa lo stesso autore in una finale nota esplicativa, deve essere letta, inquadrata soprattutto all’interno di una simmetria tra due sezioni del libro, quella di apertura (Un dovuto amore) e quella finale (Ti chiedo scusa), là dove il tema dominante è quello amoroso, tema che nella prima sezione ha un respiro decisamente più narrativo, più aperto, quasi dialogico mentre nell’ultima sezione ha un respiro più concentrato, più essenziale, là dove si stabilisce un ponte ideale tra le due sezioni da cui discendono peraltro due diversi esiti stilistici, in una sorta, come si legge in Volevo scrivere per te,  di “cerniera lampo”, che anziché chiudere tiene unito per sempre qualcosa (“Allora accetta pure / il mio volerti bene / senza trovare le parole, / sarà come una cerniera lampo / che non chiude nulla, / ma che tiene unito / per sempre / qualcosa”). Nel componimento finale della raccolta, Ti chiedo scusa per le volte, non a caso coincidente come posizione finale con quello della sezione Ti chiedo scusa  c’è un esplicito e quasi pedagogico riferimento alla figura di Nureyev, capace di far provare paura alla stessa aria di fronte ai suoi incredibili ed eleganti movimenti; personificazione, Nureyev, di un talento assoluto di fronte al quale gli stessi elementi della natura sono costretti a inchinarsi, modello che serve all’io poetico per parlare, in termini ironici, dell’anti-modello in uno scenario di resa incondizionata non potendo reggere quella imitazione troppo alta, troppo ispirata, per un io poetico tutto imperfezioni, fragilità, goffaggini: “Ti chiedo scusa per le volte / che provo a imitare Nureyev, / invece sono più goffo di un panda. // Ti chiedo scusa perché lui / era proprio un gran ballerino, / ma non faceva ridere quanto me.” Siamo di fronte a una insufficienza, alleggerita da un tono lievemente ironico, che attraversa, in verità, tutta la tessitura, la costruzione del libro. Insufficienza leggibile, per tornare alla simmetria strutturale di fondo, sia in quel primo tempo più euforico, più mosso, più divertito, quello della sezione Un dovuto amore sia in quel secondo tempo più disforico, più concentrato e in sostanza più realistico quello della sezione finale Ti chiedo scusa. Viti costruisce la sua convincente e puntuale grammatica amorosa, sottraendosi a certa retorica, a certa scivolosità sentimentale cui il più delle volte il tema amoroso va incontro. Dai primi movimenti, dai primi componimenti, si capisce che il tema amoroso è un tema impegnativo, rischioso, arduo, per niente esauribile in facili etichette, e questo dà al libro un timbro di ricerca, di non esaurito, di non completato che è la sua forza, a partire da una scrittura, come si suol dire, sempre sul pezzo, mai superficialmente divagante. Insomma un particolare tratto espressivo, stilistico che fa di Viti un poeta subito riconoscibile. Perché quello che per Viti più conta sono le molteplici sfumature che il tema amoroso conosce, nonché le tante e mai banali, scontate pieghe psicologiche che aprono momenti di intensa verità nel libro, certo godibile alla lettura, ma anche con improvvise quanto impegnative soste quelle che scavano in un tempo quasi geologico, antico, primordiale dando allo stessa tema amoroso una impronta più universale, al di là della pur significativa esperienza personale. Nel testo di apertura della raccolta, dal titolo già segnaletico di questa disposizione d’animo Non usciamo, oggi, il tema amoroso trova in una “tana” il suo habitat più naturale, quasi un ritorno a una sorta di memoria geologica, proprio per ritrovare le radici più antiche, più salde, al di là di facili mode sentimentali. Andare al Conero d’inverno, della sezione Un amore dovuto, ispira versi particolarmente riusciti del tipo: “Nei tronchi, i cerchi / concentrici di un passato / su cui sincronizzarsi. / In un attimo, siamo giù” o anche un tuffo consapevole nella preistoria come rivela, in Tu, dietro la finestra, la figura del geco “con la preistoria / viva nelle sue squame, / nei suoi occhi spiritati…”. Un tuffo, come in Tu, dietro la finestra, nella preistoria per poter incrociare, “almeno per un attimo”, la “bolla di sapone del presente. E in effetti, a ben guardare, è l’intera raccolta ad essere disseminata di attimi, di spiragli, di fessure, di cortocircuiti antropologici, che orientano, per una forza misteriosa quanto necessaria, il discorso poetico verso una realtà interiore fatta di ombre, di trasalimenti, e soprattutto di un sentimento di morte che nel componimento Quei giorni in cui (“Quei giorni in cui / hai paura della morte, / preferirei non saperli, retrocederli all’ultimo / dei miei pensieri / procrastinarli ad un mai”) trova una cadenza così insistita, marcata da non passare certo inosservata. Segnale certamente di una consapevolezza che toglie sin dalle prime batture alla raccolta qualsiasi ingombrante effetto retorico, di facile manierismo. Perché tutto nel mondo poetico di Viti è una sorta di “andirivieni” (“l’andirivieni delle stagioni”), “affanno delle nuvole” (Vorrei tenerti la mano per ore), e più in generale vivo sentimento di perdita (Quando dimenticherò le chiavi), accanto a una effervescente e a tratti ironica e defatigante visionarietà come quella che trasforma gli stessi segnali autostradali in efficaci e quasi cinematografici frammenti di un insolito, ma non meno ammiccante, discorso amoroso. Leggibile questa particolare capacità espressiva in un testo, direi, inequivocabilmente stradale a partire già dal titolo E se, lungo l’autostrada dove appunto si legge: “Il mio amore per te è eterno / più di una coda sul Brennero”; e ancora “Anche la visibilità è ridotta, / l’importante è guardarsi negli occhi”. Sempre in funzione defatigante, in direzione macabro-ironica, è da leggersi senz’altro un testo come Fingo un suicidio con polpa di pomodoro, in cui si inscena un finto e teatrale suicidio da parte dell’io poetico usando abbondante polpa di pomodoro al posto del sangue per rendere più cruenta la scena. E tutto questo per catturare l’attenzione della donna amata: “Fingo un suicidio con polpa di pomodoro. / Tu entri in cucina e mi vedi per terra. / Non ti dai pace, rantoli. / Blateri senza senso parole d’aria. // Fino a quando non recuperi un biglietto / dove è scritto: sono un cadavere, sì / ma con una voglia matta di vederti.” Si vedano anche sotto questa lente di ingrandimento certe significative aperture sul paesaggio, vuoi quello esplosivo e lussureggiante siciliano, in particolare della Sicilia orientale “pieno di mandorli e fichi d’India” (Fa caldo d’estate in Sicilia), vuoi quello più familiare e marchigiano di Monte Urano dove il poeta è vissuto per anni, mondo in cui ritrova personaggi sì più solitari ma carichi di grande umanità, di un vissuto che ha lasciato tracce significative su di lui: il dottore, la prostituta, l’autista di autobus, Bruna la cartolaia, i vecchi compagni di scuola ormai sparsi per il mondo, i tanti cartelli  “affittasi”, le tante “serrande abbassate”, “i tubi di scappamento / dove un tempo cresceva solo erba” (Non è rimasto nessuno). Segni indiscutibili di un irreversibile e progressivo abbandono di quei luoghi ora vivi soltanto nella fantasia, nella memoria dell’io poetico. Se è vero che Quando l’aria aveva paura di Nureyev sta dentro una costruzione simmetrica che va dalla sezione di apertura (Un dovuto amore) a quella finale (Ti chiedo scusa), sezioni dove il tema amoroso risulta indubbiamente centrale, non sono trascurabili altre sezioni del libro dove l’io poetico affronta il tema della degenza in ospedale di persone care, della solitudine, del dolore, della malattia, della morte, soprattutto in direzione della cara e amata figura paterna, con un tratteggio mai banale e consegnato a lievi quanto vitali movimenti, increspature psicologiche alla ricerca comunque di un sentiero che porti “dritto dritto” al “parco dei sentimenti” dove l’io poetico ritrova “alberi robusti” e dove non esistono stupidi steccati, stupide separazioni, condizione che favorisce un diffuso senso di attesa (Ignorarsi, mentre le orchidee). Tratti che caratterizzano soprattutto le sezioni Nel nome del padre e Corsie. Così come, sempre in direzione amorosa, significative suggestioni si possono leggere nella sezione Agenzia investigativa Morgan, curioso gioco investigativo, godibile intreccio di casi polizieschi tutti assolutamente inventati prendendo spunto però dal nome di una agenzia realmente esistente il cui cartellone pubblicitario muove l’immaginazione dell’io poetico. Per dire delle tante e suggestive direzioni in sui si incanala la scrittura di Viti, a partire da alcune felici citazioni del mondo, del costume musicale (da Sapore di sale di Gino Paoli a Non c’è più niente da fare di Bobby Solo), fermo restando, in questo viaggio, in questo continuo “andirivieni” della memoria, la assoluta centralità del tema amoroso, vero centro di gravità permanente di una scrittura con momenti particolarmente ispirati, riusciti.


 

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