Lucio Macchia   "E altro è da veder"
Paola Casulli - New York

Lucio Macchia "E altro è da veder"

diFloriana Coppola

E altro è da veder che tu non vedi.  Così dice il verso di Dante Alighieri preso dal XXIX Canto dell’Inferno. Citazione emblematica con cui l’autore inizia e titola la sua silloge  e continua con i versi biblici dei Corinzi sullo sguardo sensibile all’invisibile. Leggendo i versi di Lucio Macchia, arrivano molteplici immagini. Oltre ai  quadri di Gauguin, a cui  dedica la prima poesia, mi sono venuti in mente due famosi dipinti, Il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich e  Indeprofundis di William Turner.  Ut pictura poesis. Come la pittura, la poesia. Lo sguardo racconta il reale e la voce riproduce ciò che non si può vedere, ma si intuisce. Una metafisica dello sguardo che diventa colonna vertebrale del racconto in versi.

l’intera visione m’incontra, 

ai miei occhi irriducibile 

vita che giace, seducente, 

nel quieto letto delle forme. 

Le didascalie, i filari di segni, 

perpetuo cordame di rimandi, 

tutto cede di fronte alle suture 

invisibili delle cose


 Esiste una relazione profonda tra pittura e poesia, linguaggi artistici che vogliono connotare il reale, attraverso il segno. Scrivere ciò che è invisibile, raffigurare con le parole la visione del sublime, la raffigurazione della contemplazione della natura, dello spazio che circonda l’uomo.  Trovare la giusta distanza, attraverso le parole, per evocare la percezione visionaria di ciò che non si vede, ma che esiste oltre ogni confine, oltre ogni limite. Il poeta  vive la ricerca ossessiva e costante di dare voce all’ineffabile. L’uomo contempla lo spazio e medita sui misteri della vita. Esiste certamente  un piacere nello sguardo, che ritaglia i frammenti di luce e di spazio. Proprio la parola luce viene ripetute molte volte nella raccolta. L’autore dipinge con le parole ciò che vede e pensa come mettere su carta  l’ atmosfera surreale che lo circonda,  la delicata relazione tra l’uomo e l’ambiente, tra l’uomo e la realtà.  In questa scrittura poetica, ciò che è esterno riverbera dentro, ciò che è interno si proietta fuori, seguendo il desiderio di pace e di silenzio. Spazio e tempo sono metafore esistenziali di questa profonda connessione tra l’uomo e il cosmo. Non è facile cogliere l’istante, un tempo irripetibile che ricorda il conflitto insanabile con il reale, conflitto superabile solo attraversando quella posizione culturale  antropocentrica, che falsa ogni percezione.

scrittura – questa – rispecchiante: niente 

dei grandi orgogli, o didascalie che il mondo 

tanto ama, o certa orologeria delle parole, 

bella perché così minuta, così bastevole. 

Qui, invece, a tentare – folle – alchimie nuove, 

un vitriol che consumi, che trasformi: 

dal piombo del mondo, a estrarre luci e slanci.


Le parole sono quindi meccanismi misteriosi, orologerie per tentare di fermare il momento, il punto di luce che sfioca dal reale al simbolico. La poesia è il linguaggio alchemico che trasforma soprattutto la percezione del poeta e del lettore, perché diventa medicamento e cibo per stare al mondo, per sostenere ogni contraddizione. La narrazione poetica racconta questo cammino verso la rivelazione visionaria del mondo.

le parole incerte, 

a tentare di dire, ove invece attorno è esatta 

la contabilità delle cose (e del tempo) e ci attira 

quel canto di note facili – noi pronti a cadere, 

dentro quella felicità costante.

La battaglia costante  tra il dire e il tentare di dire racconta questo slittamento continuo tra il dato esterno e l’io che contempla. Colui che scrive misura il tempo, il tempo della realtà e il tempo del dialogo interiore più intimo. La contabilità delle cose è coscienza del passare del tempo. Sembra che ogni strofa segua l’ atto di espirazione e inspirazione, per far entrare e far uscire aria dal corpo. Un respiro difficile e faticoso. Percepibile è la consapevolezza della fragilità della dimensione umana, condizione ungarettiana condivisa. La scrittura poetica diventa occasione esistenziale per individuare con drammatica precisione il proprio posto nel mondo. Ecco che ritorna la figura del viandante decadente, rivolto di schiena, il profilo sottile che quasi scompare nell’orizzonte grigio e azzurro tra montagne e cielo. Colui che viaggia non si ferma, sente la sua inquietudine come testimonianza radiografica del cuore in pena. Colline, alberi, strade, laghi e torrenti. Gli elementi del paesaggio vengono declinati di  strofa in strofa, quasi un’operazione di rispecchiamento. La riflessione oculare  gira intorno come una telecamera cauta e lentissima,  che segue una sceneggiatura rarefatta e sofisticata.

E poi parole di carta, 

inutili, avvolgenti; e di plastica, vuoti dolorosi, 

inesprimibili. E poi, infine, le parole umide, 

putrescenti, marcite, della vita accumulata, 

passata, mai redenta. I passi sono instabili. 

Mi aggiro fantasma. A me stesso uomo. 

Mi prometto solo un silenzio nuovo, una 

pioggia lenta, sottile, di gocce continue


L’autore racconta il senso della sua solitudine, di quella serena malinconia, di quella rassegnata tristezza che prende il suo animo, contemplando il mondo. Infine i versi danteschi citati all’inizio possono essere evocati in chiusura,  perché infine chi legge ha la sensazione che la voce del poeta arrivi da un punto lontano: 

E già la luna è  sotto i nostri piedi. 

Il viaggio sembra concludersi con una rivoluzione vissuta nello spazio. Colui che scrive il mondo, si allontana dal mondo stesso per guardare da un altro punto di vista, da un’altra prospettiva,  tanto che persino la luna è sotto di lui. Questa immagine dantesca può collimare felicemente con la conclusione della silloge, dove il senso infinito della finitezza umana e del suo mistero  rimanda alla consapevolezza della morte e del suo silenzio, in fondo naturale se visto nella grandezza del cosmo.

Commenti

Lascia il tuo commento

Codice di verifica


Invia

Sostienici