Lungo i margini del corpo. Tiziana Cera Rosco tra arte e poesia
Tiziana Cera Rosco "She was a prayer", 2017, gesso - canapa - bitume

Lungo i margini del corpo. Tiziana Cera Rosco tra arte e poesia

diIlaria Monti

Il primo luogo che abitiamo è il nostro corpo; l’unico spazio che davvero possiamo dire nostro inizia e finisce lungo il suo profilo, lungo la punta delle dita. «Corpo incomprensibile, corpo penetrabile e opaco, corpo aperto e chiuso: corpo utopico. Corpo, in un certo senso, assolutamente visibile», diceva Michel Foucault [1] parlando del corpo come spazio topologico, luogo del qui e dell’altrove. La condizione di costante visibilità e presenza che la contemporaneità spesso impone – con le sue forme di relazione, comunicazione, ri-produzione dell’immagine di sé – può generare il paradosso di corpi visibili ma non visti, di corpi ipersensibili eppure sordi, atoni. Che lingua parla il corpo, quanto ingombra lo spazio che occupa, quanto spaventa e si spaventa soprattutto adesso, in quest’aria insalubre e pandemica? La riflessione sul corpo che oggi è ampiamente condotta tra le pratiche estetiche e negli studi antropologico-sociali è piena di ramificazioni. Un esito interessante, per l’attenzione al tema da un punto di vista interdisciplinare e per la dimensione esistenziale e simbolica da cui prende le mosse, è rappresentato dal lavoro di Tiziana Cera Rosco (Milano, 1973), poetessa e artista. I versi e l’arte, l’autoritratto fotografico, la performance e la scultura in particolare, sono le forme con cui conduce da anni una riflessione sul corpo come cellula semantica e somatica da cui ogni esperienza ha al contempo origine e fine: il corpo come campo di tensioni vitali, metafisiche, primordiali. Nell’ ultima raccolta di poesie Corpo Finale (Lieto Colle, 2019) sono racchiusi alcuni dei nuclei principali della sua ricerca, che intreccia tratti della propria vicenda biografia alla riflessione mistica e filosofica di autrici e autori come Simone Weil, Feurbach, Nietzsche, o ancora alla poesia di Auden, Esenin, Rilke, Saint John-Perse, Celan. Nomi amati e necessari, che appaiono di tanto in tanto tra le pagine come interlocutori di un silenzioso dialogo. Il libro raccoglie testi scritti nel corso di dieci anni in cui l’artista si è trovata ad interrogare se stessa, Dio e non da ultima la terra nella sua dimensione macro e microcosmica, quest’ultima relativa in particolare ad un luogo dell’infanzia, il bosco di Barrea in Abruzzo che negli anni l’artista ha trasformato in un universo di segni e simboli, per consegnarsi infine nuda e senza altre armi se non i propri occhi alle contraddizioni e alle difficoltà del linguaggio. 


Presto perderò peso per un assottigliamento di retina.

Se vedi i miei, dì loro di pregare così

Di pregare solo per i miei occhi [2]


Si può imparare a conoscere il proprio corpo scrivendo di un dolore, di un osso spezzato o dell’impronta di un piede scalzo, di un presagio nel cuore dello stomaco. Con occhio chirurgico, ci si guarda dentro scavando. Tiziana Cera Rosco ha sottoposto a questo scavo il suo corpo sonoro, che ha la voce della poesia, e il suo corpo-sostanza che ha invece la forma della scultura. Tra i due, l’esercizio del linguaggio, della scrittura e dell’arte come esperienza del non-finito, narrazione della perdita e faticoso tentativo di riconoscersi: per questo nella sua opera il corpo è sempre una forma aperta, una faglia che si muove lenta sull’orlo della frattura – segno ricorrente nelle opere dell’artista, e che è simile a un varco aperto sul corpo. Ecco allora l’esigenza di registrare la propria forma-corpo nel suo farsi e disfarsi, come accade nella scultura. L’artista realizza calchi di se stessa in gesso o ne riproduce le forme in poliuretano, e dalla testa al busto al ventre l’anatomia è cava e franta, sopravvive soltanto come involucro. Come sorprendendo l’intimità di una metamorfosi in atto, sul corpo è marcato il sottile confine tra il regno umano e quello naturale, a cui appartiene l’universo poetico e simbolico di Tiziana Cera Rosco: senza più sangue le arterie diventano un percorso di radici boschive, e nel grembo trova dimora la terra. È un corpo geologico e a tratti fitomorfo, e non a caso l’artista intitola Olocene il ciclo di calchi in gesso realizzati tra il 2017 e il 2019, come fossero superstiti di un’era geologica in cui, più di diecimila anni fa, la civiltà umana ha iniziato ad “addomesticare” questo mondo giunto alle soglie di un Antropocene dai confini incerti e discutibili. Il principio della civiltà a cui Tiziana Cera Rosco allude ha l’aspetto di una lacerazione, di uno sradicamento e in parte di una fine, e trova echi e corrispondenze tra la scultura e i suoi scritti:


Che c’è già la violenza del germoglio sullo sradicamento

E me lo porto in pancia

Senza nessun limite di grembo – neanche il tuo –


È in questo sradicamento che il linguaggio poetico e artistico si fa simile a un gesto di risanamento, ripristino e cura, diventa genesi e ricongiungimento del presente a un tempo primordiale. In principio era il verbo, ma anche il cielo e la terra, anche il buio e la luce, anche il corpo con cui prendiamo posto nel mondo. Tiziana Cera Rosco compie allora un percorso a ritroso verso l’Olocene per tornare sull’uscio dell’era del sacro: prendere il calco del proprio corpo per conservarne la traccia; farsi forma e scultura per uscire da sé, dare parola ai gesti, alle visioni rievocate, alle ferite, e farne simbolo e archetipo personale. Prendere infine consapevolezza del proprio corpo come interstizio da cui far entrare tutto ciò che sta al di fuori.  A proposito di sacro e di gesti di cura, Guido Ceronetti ne Il Silenzio del Corpo (1979), curiosa disamina di antichi rimedi, rituali di guarigione e pratiche contemporanee, annotava: «È l’interdetto sacro che protegge la natura, non la buona educazione, non la legge civile. Se l’ulivo è sacro a Dio, l’ulivo non sarà tagliato». Concepire il corpo nella sua più profonda appartenenza e somiglianza all’elemento naturale, nella dimensione selvatica del sé, all’ombra antichissimi simboli e rituali, è in qualche modo ancora un esercizio di autoconservazione, quasi una difesa immunitaria al sistema presente e al moltiplicarsi frenetico di riti che oggi aggregano i singoli determinando la disgregazione dell’io.  È collocarsi tra l’origine e la fine, prendere il calco di un tempo in cui l’unica forma di esperienza del mondo era il corpo a corpo con la vita e con i fenomeni che gli uomini e le donne non sapevano ancora leggere, ma che potevano interpretare. 


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1  Michel Foucault, Il corpo utopico, radiconferenza del 1966.

T. Cera Rosco, Corpo Finale, LietoColle, 2019, p. 56

3 G. Ceronetti, Il Silenzio del Corpo. Materiali per studio di medicina, Adelphi, Milano, 2010, p. 61


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