Messa a dimora di Federico Preziosi
Opera di Edoardo De Candia

Messa a dimora di Federico Preziosi

diFloriana Coppola

Io che accolgo rovine per tenerti, /io, delegato alla memoria e stella/ caduta a terra non so quante volte. / È la morte, ci vuole questa vita/ per restare così, intimità e fede./ È la morte per quanto/ amore conta/ l’appartenenza all’oggi e al dopo no.

Federico Preziosi nasce ad Atripalda nel 1984, vive e lavora a Budapest, in Ungheria. Capace divulgatore di poesia, scrive per Readaction Magazine e exlibris20, è fondatore della Comunità poetica Versipelle per la quale conduce delle trasmissioni su YouTube. La sua produzione letteraria nasce cronologicamente con la sua migrazione all’estero e può rientrare in quella che viene considerata “la letteratura italiana della migrazione “, cioè quella letteratura espressa in italiano da scrittori di origine immigrata o prodotta da emigranti italiani, che racconta questa esperienza da un punto di vista di chi guarda dalla giusta distanza. Uno sguardo che viene da lontano, dentro e fuori insieme. Una narrazione contemporanea che ha spostato i confini, inquieta e destabilizza. La letteratura dell’emigrazione ha una storia molto travagliata: nasce con la massiccia emigrazione italiana, alla metà del Novecento, verso le Americhe e poi verso paesi europei settentrionali come la Germania. Ricordiamo come scrittori Mario Puzo, autore de Il Padrino (The Godfather, 1969) e John Fante, (Aspetta Primavera Bandini, 1938, Chiedi alla polvere, 1939) e poeti come Cesare Pavese e Salvatore Quasimodo, che hanno saputo esprimere nelle loro poesie la nostalgia e lo sconcerto, lo smarrimento di chi non si sente più a casa in nessun luogo.  Gli scrittori e i poeti migranti ci ricordano in modo drammatico il percorso tra identità e alterità. L’esperienza del sé comprende la consapevolezza dell’altro. Il carattere autobiografico della precarietà, sia nei versi che nella narrazione, condiziona “la poetica del sentire e della transitorietà”. L’italiano diventa la lingua del cuore, la lingua madre da cui bisogna allontanarsi per poi ritornare a lei come autori e autrici. La scrittura si rivela così una strategia di sopravvivenza per ricostruire un mondo proprio, accantonando l’appartenenza originaria con tutto il suo universo simbolico, per   diventare “cittadini della letteratura”. Infatti, così bisogna leggere l’ultimo libro di Federico Preziosi “Messa a dimora”, edito da Lepisma floema. Esso appartiene a una trilogia in progress il cui primo elemento è la silloge poetica Variazione Madre, finalista al Premio Città di Conza della Campania e Menzione speciale al Premio L’Iguana – Anna Maria Ortese nel 2021. Scrive Giuseppe Cerbino nella bella prefazione: “questo libro […] presenta, tra le tante peculiarità, quella di voler confessare apertamente e con coraggio l’inquietudine che ci avvolge quando lasciamo i luoghi dove siamo nati al fine di approdare in altri – a noi apparentemente estranei – che sono quelli della maturità. Non c’è crescita senza dolore per la perdita; è quanto si evince leggendo le liriche che compongono questa raccolta attraverso cui il poeta irpino combatte con la tentazione di non rinunciare a una protezione che tuttavia si rivela sempre vulnerabile”.

Dove abiti / Abiti nell’assenza mal riposta/ tra le ombre che leggere/ si allungano al fasciame luminoso. / L’altezza solo un punto / una distanza sulle viscere mute /che affidano al pensiero
un ritorno al calore dell’inverno. /Tu non dimenticare / non ho dimenticato mai un secondo
del nostro margine / che stringevamo in bocca.

Abitare nell’assenza, abitare l’assenza. Sostenere il dolore della distanza nella consapevolezza che nulla va dimenticato del passato che ci ha originato. Temi fondamentali di questo testo, segno della maturità raggiunta del poeta irpino. Messa a dimora nasce da una riflessione profonda, autobiografica, sublimata dalla verve poetica, che ha come tema la condizione del figlio, la ferita del distacco dalla madre, l’abbandono del luogo di origine e la separazione dal padre. La ferita della crescita di maturazione che rende adulti è al centro di questo testo. La ferita cicatrizza i suoi margini infiammati con il canto. La tragedia edipica tracciata da Sofocle, archetipo prima freudiano e poi rivisitato da Jung, è carne impressa della versificazione. Attraverso una scrittura prevalentemente endecasillabica, ragiona e patisce il rapporto edipico. Incesto e uccisione del padre, in quest’opera, diventano metafora del giovane uomo che deve affrontare un aspetto evolutivo della sua vita: separarsi dalla protezione materna e separarsi dal luogo natale, dal territorio di nascita, fase dolente dove un legame intimo si trasforma in un’allegoria epica, l’esodo vissuto a volte come un esilio. Attraverso una versificazione colta e ben ordinata metricamente, Preziosi affronta il problema cardine della sua generazione nata nel meridione: la necessità di lasciare la propria terra per cercare un’occupazione coerente con la propria professionalità.  

Vieni, ti porto dove il margine vale la chiusa /e l’ombrello non ripara dalle ombre bagnate;/ il chiasso alla lunga si fa silenzio/ in barba ai suoni che ti appartengono. / Sono tutti pensieri/ certi stupidi certi meno/ ma tutti comunque dirottati/ dal peso di una goccia. /Si stacca il mento quando vedi un fiore /anche quando sai non è per te.

Il corpo e la natura raccontano ogni passaggio, narrano di questa trasformazione esistenziale. Ogni volta che si affronta un cambiamento radicale, si rivoluziona il sentire. Il linguaggio materno viene tradito e abbandonato.  Inquietudine e angoscia, nostalgia e tristezza sono i sentimenti prevalenti di questo viaggio poetico e autobiografico verso altri luoghi, approdi dove si diventa stranieri, pur mantenendo una forte catena emotiva e affettiva con i luoghi lasciati. Si abbandona e si viene abbandonati, orfani di una condizione adolescenziale, dove l’ombrello protettivo del paese materno si chiude dolorosamente, dovendo poi “uccidere” quel padre simbolico dell’appartenenza al territorio. Sganciati da entrambi questi ancoraggi si rivela a sé stessi soprattutto la propria vulnerabilità. E proprio la consapevolezza di questa fragilità, crea uno squarcio tra il prima e il dopo.

A malapena / Quel che abita un movimento in parole / sopra la veste a malapena detta /a malapena spoglia di lembi di pelle / a malapena Madre nel dar nome /al vuoto quando domanda chi sono.

Altro tema di fondo ricorrente è il vuoto. La denominazione del vuoto, quel senso di disorientamento legato al nome in cui riconoscersi, al sistema di sopravvivenza che gira intorno alla denominazione delle cose che ci appartengono. Lo sradicamento della migrazione passa attraverso la perdita del nome. Le domande “chi sono” e “a chi appartengo” si modulano diversamente, prendono uno spessore diverso nello sguardo straniero che non sa e non conosce, che non può risalire a quella costellazione genealogica che ti ha messo al mondo, fatta di persone e di luoghi, di scenari naturali e di memoria di incontri. La percezione di uno smarrimento, il senso di una sospensione creano nell’animo del poeta un doppio: colui che ero nel luogo del passato e colui che sto diventando nel luogo del nuovo approdo. Itinerari rivoluzionari della percezione dell’io che sono propri della crescita armonica dell’individuo: uccidere il padre, abbandonare la madre per fare il passo nel mondo come adulto autonomo.

Sono frutto del tuo seno mutilato/ un rigetto concepito dalla carne/ Quando chiama pasciuta e profumosa/ l’erba vorrebbe assiderare/ queste spoglie adulte d’orfano./ Proteso al cospetto di una fronda folta/  mi si inietta sete mi si effonde fame/ mi si spezzano le nocche sui guanciali/ depravati e sadici delle notti,/ e di giorno annaspo  tra le cure/…

Tutto ciò che prima era familiare, intimo e rassicurante, diventa lontano e sfumato nella nebbia del ricordo, nella memoria del passato che si smargina e lascia quel senso di vuoto interiore che ci ferisce e ci annienta. Diventiamo in un’altra terra estranei a noi stessi e stranieri agli altri, tutto viene trasformato da questa distanza che è fisica ma anche psicologica. Questo processo di emancipazione dalla propria origine espone anche la lingua nativa a un obbligato avvicinamento alla lingua straniera, luogo immaginario di questa perita, di questa separazione. Diventare adulti vuol dire radicare il proprio linguaggio in un altrove raffreddato dai legami originari strappati; e questo strappo viene narrato in forma simbolica, diventa il cantiere trasparente e pubblico del nuovo sguardo di Edipo che accetta la sua solitudine, le spalle scoperte, il petto arreso al nuovo respiro e aperto al futuro.

 Nessun dove / In nessun dove la formica pondera / una briciola senza buco, là / luogo in cui carezze si sciolgono /contese al sole. / Quanto fallimento ritardano / quelle ombre fuoriuscite dalla luna, / si contano i passi del grembo / per le volte in cui nacqui /nel caldo oscuro del tuo bene
in nessun posto mai.


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