Nave crociera - Ultima parte
Opera di Luciano Schifano - per gentile concessione di Lorena Fiorini

Nave crociera - Ultima parte

diTeresa Mariniello

Al tavolo per la cena sono già arrivati quasi tutti; la coppia siciliana di cui conosco già abitudini e preferenze, la coppia barese pure, noi due. Manca la coppia non coniugata. Lei estetista in un piccolo paese padovano, lui commerciante di articoli elettrici. Amano ballare per cui arrivano già pronti per dopo. Si fa il punto sulle escursioni fatte oggi, ci si racconta anche del giro fatto il pomeriggio, delle foto acquistate come ricordo. Arriva il cameriere. 

Fabio, il commerciante, si mostra sicuro di sé; con la giovane compagna è galante ma ribadisce in qualche modo un bisogno di libertà. È stato già sposato con figli, ed evidentemente non gli aggrada la gelosia di lei.

In amore c’è sempre chi fugge e chi insegue. 

Azzardo qualche interpretazione della cosa, ma vedo che lei mi guarda stupita. Non vado oltre, non vorrei fosse gelosa di me…

È che il troppo amore mi stanca solo a vederlo negli altri. 

La passione è salvifica per certi aspetti ma estremamente nociva per altri. Bisogna sapere andare senza indugio quando inizia la dipendenza. Occorre mantenersi lucidi per vedere ciò che non si vorrebbe vedere. Ci ho messo tanto pur vedendolo. Che mi usava. Difficile a dirsi ancora oggi.

   “Me ne vado. Non ti chiamerò più. “

   “Allora cancellami.”

Era stupito, anche dispiaciuto. Ecco non vorrei che accadesse a lei, mi sembrano ci siano buoni presupposti però.

E me ne andai. Non fu un sacrificio, ma un anelito alla salvezza, sentivo che mi sarei persa dietro un desiderio mai appagato. Una attesa mai stemperata.

Guardo Luisa, così contenta del suo matrimonio collaudato, così serena nelle piccole cose, giudizi, programmi televisivi, souvenir acquistati. E mi sento ingenerosa. Chi sono io tanto da giudicare così gli altri. Sempre snob. Se non fossi stata fragile non mi sarei persa tanti giorni, tanta vita dietro un uomo. Che non era neanche granché, in fondo. Solo silenzioso abbastanza perché potessi immaginarlo così come avrei voluto fosse.

   “Domani si fa colazione alle 9, così da essere con calma giù al ponte 0 per le 10. L’ escursione dura fino alle quattro, ma siamo libere di staccarci prima se lo riteniamo opportuno e mangiare sulla nave se vogliamo. Va bene?”

   “Benissimo! Adesso scusami ma proseguo un po’ il lavoro così da essere libera per domani”

Forse vado più tardi dagli amici, ascolto un po’ di buona musica, chiacchiero. O forse no, è troppo presto, non credo di trovare nessuno. Mi dirigo sul ponte. 

Il vento mi sbatte in faccia e faccio fatica ad accendermi la sigaretta. Vicino a me un uomo, un ufficiale. Sulla divisa ha scritto il nome, non mi pare gentile leggerlo. Ma ha un viso conosciuto. Cerco di scovarne i tratti  nei ricordi mentre lui mi accende la sigaretta. E nell’avvicinarci, senza un motivo reale, ci baciamo. A lungo anche. Poi insieme scrutiamo il mare. Così, accanto e senza parole.

E mentre si avvicina un gruppo rumoroso nella solitudine della sera e di noi due, mi unisco a loro e con loro mi allontano.


Mi sveglia la luce. Scostò appena la tenda e vedo.

Lingue di terra, basse e con case basse, e approdi piccoli con strade nascoste e minute, e tetti spioventi, e cielo alto.

Mi emoziona tanta vastità, tante quinte, tanta vita raccontata in piccole e minute cose.

Prendo la macchina fotografica, vorrei avere qualcuno con cui condividere tanta bellezza, e intanto il paesaggio è cambiato, si è fatto vasto. Si allarga sotto un cielo grigio e mattutino.

I gabbiani volano intorno alla nave. Qualcuno da una cabina vicina prende a dar loro cibo, si sentono voci che gridano sottovoce mentre gli uccelli si assiepano, restano sospesi nell’aria, le zampe ritratte per ridurre l’attrito. Mi fa pensare alla scena del film “Gli uccelli”. Grande maestro, Hitchcock. Rientro in cabina, le voci si sono alzate troppo.


Dopo colazione eccoci giù insieme al grande gruppo. Routine della guida che illustra la città e i particolari caratteri di essa. Giro per le case basse tanto pubblicizzate. Così colorate, così allungate. Piene ora di piccoli negozi per turisti, bar, birrerie. Un giro per il mercato del pesce, un altro per la parte più recente della città. Infine la funivia che porta su al belvedere. Spettacolo mirabile. Il tutto abbastanza inutile per la mia ricerca. Propongo a Luisa di tornare da sole alla nave, facendo ritorno per la strada superiore al gruppo di case storiche.

Da questa prospettiva sono più interessanti. Molto accostate per proteggersi dal freddo e dal vento, si aprono nella parte superiore con loggiati profondi. Guardo i tetti spioventi, l’uno sull’ altro, i minuscoli crocevia alle spalle del mare. In uno di questi noto due giovani e un vecchio. Li ho già visti sull’ autobus, ma non mi hanno colpito come ora.

Il più grande dei giovani, seduto su un muricciolo, gambe incrociate disegna su un piccolo taccuino. Si guarda intorno e disegna. L’ altro fotografa, si sposta, si inclina, si muove, ritorna. Scatta. Il vecchio li guarda. Annuisce a un disegno, a una foto. Chiacchiera con qualcuno dei turisti. Siede anche lui sul muricciolo. Ha uno sguardo d’ altri tempi e gesti pacati, che non gli vengono solo dagli anni.

Di corsa faccio le scale, ho desiderio di conoscerli, di incontrarli. Mi guardò intorno, non li vedo…ma proprio ora dovevano spostarsi? E, dove...

Poco più in là vedo tavolini di un bar, forse il vecchio si è stancato ed ha proposto una sosta più comoda, e…si! Eccoli!

Mi avvicino, meglio che Luisa non sia con me ma al negozio di souvenir, mi sento più libera in questo approccio che sento un po’ strano.

   “Vuole accomodarsi con noi, bella signora?”

Inaspettatamente mi dice il vecchio signore; è proprio bello, sguardo aperto, un sorriso sincero e affabile, bei lineamenti, un po’ curvo sulle spalle. Resto come stupita per questa corrispondenza così naturale,  non faccio neanche in tempo a rispondere che lui prosegue: “Luca, fai accomodare la signora.”

Il giovane Luca mi prende una sedia e me l’ accosta con fare gentile.

Ma da dove vengono, mi chiedo, da quale tempo remoto. E ancora lui:

   “Possiamo offrirle qualcosa? Sa, i ragazzi hanno voluto una birra per giustificare la sosta di cui necessitavo. Come vede sono proprio vecchio. Non mi pare ora di birra…lei desidera un caffè, magari con una fetta di torta? È più ora di merenda, mi sembra.”

   “Un caffè, grazie. Ma non dovrebbe disturbarsi così…”

   “È solo un piacere, non mi privi di questo piacere. Mi presento: mi chiamo Ferdinando Didio. E questi giovani sono i miei nipoti: Luca e Andrea. Con chi ho l’ onore di parlare?”

   “Alicia. Alicia Sammeri.”

Mi sorride inclinando il capo, guardandosi intorno: “Non trova che questo luogo sia delizioso?”

   “Assolutamente! Ero in escursione con un gruppo della nave su cui sono, in verità siamo, c’è con me una amica anche…e siamo poi tornate da sole per rivedere con più attenzione il vecchio porto.”

   “Che fortunata combinazione! Anche noi siamo qui con lo stesso gruppo. Sa, Luca è un fumettista; aveva bisogno per i suoi studi di vedere da vicino un luogo “vichingo”, quale migliore occasione per me di unirmi a lui, certo in crociera… ma… di necessità, virtù! Non sta andando male, vero, ragazzi? Andrea invece è un fotografo, con svariati interessi, credo che delle foto ne farà un servizio che riuscirà a vendere poi bene. E, giustamente, ha voluto anche lui unirsi, facendomi doppiamente felice.”

Però...penso…che arte della conversazione! Sono in un salotto buono della città! Com’è che non li ho notati né sulla nave né sul pullman? Andrea mi osserva solo, ha uno sguardo attento e penetrante, il taglio degli occhi è allungato, e questo ne accentua la lucentezza. Luca invece ha l’eccitazione dentro, e non sono sicura che gli faccia piacere essere bloccato qui a fare conversazione con me, infatti quasi di scatto si alza:

   “Nonno, scusa. Ti spiace se vado a completare lo schizzo? Poi potremmo chiamare un taxi per tornare sulla nave…mi scusi, Alicia. Ne ho veramente necessità.”

   “Ma certo! Resto volentieri a far un po’ di conversazione con il vostro nonno, è una persona così piacevole, e questo è un bar un po’ lontano dalla confusione che c’è in giro.”

   “Allora a dopo, vado anche io con Luca.” Aggiunge Andrea.

Bacia il nonno sulla tempia e entrambi si allontanano.

Restiamo soli senza il minimo imbarazzo, non so come ci avviamo lungo un discorso intessuto di arte e letteratura. Parliamo di classici, francesi e russi, ma anche di italiani. Ci saggiamo sui gusti, preferenze, spingendoci poi su sentieri più difficili, Tabucchi sì…ma… Pessoa! E siamo ancora lì a confrontarci, quando arrivano i ragazzi, che un po’ partecipano un po’ desiderano tornare.

   “Davvero è stata una gioia incontrarla. Spero di poterla rivedere.” E si inchina leggermente.

E subito con naturalezza gli rispondo: “vengo a trovarla allora.”

Ritorniamo separatamente al porto, loro in taxi e io e Luisa a piedi. Lungo la strada mi mostra i piccoli oggetti che ha comperato, io le racconto dell’incontro avuto. Incominciamo entrambe ad essere più in confidenza, ad accettare di più ciò che ci differenzia.

Ripenso al litigio di stamani, ripenso alla confidenza di ieri sera di Lucia e mi viene una gran tristezza addosso. Carceri, prigioni del corpo e dello spirito. Come se restare aggrappati al proprio peggior nemico fosse l’unica conferma possibile per la propria identità.

Ma no, che dico? Lucia è scappata dal suo violento marito, ha preso la sua bambina e si è trasferita al nord. 

Ora lo chiama: “Il virus mutante.” Ora sorride, ma ho fatto in tempo ieri sera a vederle scorrere una piccola lacrima sulla guancia.

E questo vecchio, che mi piace così tanto, che vita avrà avuto?

Mi è sembrato di capire che è solo, forse è morta sua moglie, forse i figli son lontani. Mi piacerebbe abitasse nella mia stessa città, potrei andare da lui e ascoltare i suoi racconti, oppure potrei andarlo a prendere per una passeggiata in un parco, oppure, be…facciamo che stasera cerco di individuare il tavolo e di capire qualcosa in più di lui, no, no, forse stasera sarei sfacciata, magari domani. Ma che mi succede…neanche il bacio dell’ufficiale dell’altra sera mi ha turbata così…quello può andar bene per far sesso, e ne avrei bisogno…ma il modo di guardarmi di Ferdinando è stato così accogliente, come se mi prendesse tutta come sono, come se fosse veramente interessato a me. Tutta.

E allora perché no? Perché, se lui vuole, non intrecciare una relazione d’amicizia, perché non vivere un sentimento.

Lo cerco sul database così da scoprire la provenienza, sua e dei suoi nipoti. Certo sta venendo il buio e tra poco sarà ora di cena. 

Intanto mi faccio una doccia, così faccio più in fretta poi. Ed eccomi, col mio kimono di seta sul corpo nudo, a cercarlo. Fuori il cielo è stellato e silenzioso, così al largo non arrivano i suoni di Bergen, ma quelle case così vicine l’una all’altra, quasi addossate per proteggersi dal gelo mi hanno dato un senso di tenerezza per noi tutti, per quanto c’è di buono e di cattivo in tutti noi.

(Parte sesta)


All’improvviso mi arriva una voce alta che somiglia a un sibilo o a un tuono.

No, è un grido! Quasi selvaggio! Prolungato. 

È terribile. E ora voci alterate! Le loro…ma come, ancora? Non prendono fiato questi due? 

E mi affaccio dal mio balcone spostando il tavolino per meglio vedere.

Lei è accucciata per terra e singhiozza tenendosi la testa tra le mani, lui le grida di calmarsi, che non è successo nulla di grave, nulla di irreparabile, che solo lei, nonostante tutto, è la donna della sua vita. Ma lei singhiozza. Lui, tentando di accarezzarle dolcemente il capo, le consiglia di star zitta, altrimenti la sentiranno tutti.

E allora, allora, accade. La donna si alza da terra come una bestia infuriata, comincia a graffiarlo sulle braccia e sul collo, su tutto ciò che di lui può raggiungere, l’uomo all’inizio cerca di proteggersi e ancora di calmarla, poi riesco a sentire: “va bene, l’hai voluto tu! Non ti sopporto più, mi hai stancato, ho sempre bisogno di scappare da te perché sei fagocitante, e invento mille scuse per farlo. E anche bugie ti dico, tante e da tanto, persino mi diverto a inventarne una sull’altra per vedere la tua faccia passare da quella solita espressione di vittima all’altra di chi sa vedere in profondità. Cara mia psicologa mancata, non mi pento affatto di nulla, e se vuoi farmi sentire in colpa sappi che neanche la parola mi piace, figuriamoci il sentimento! Devi andare via, devi scomparire, hai capito?”

Lei retrocede ora, lo guarda attonita: “Ma sono già scomparsa, è tutto un anno che non ti chiedo nulla, è tutto un anno che vivi per conto tuo.” Fa in tempo a dire solo queste brevi frasi perché le mani di lui già si allungano verso il suo collo. Minacciose. 

“Devi scomparire del tutto.” Aggiunge guardandola.



Mi si chiude la gola, mi sento mancare e vorrei cadere e invece urlo anch’io e corro, corro, per i corridoi, chiedo a gran voce aiuto, chiedo a gran voce che si vada nella cabina sotto la mia, che si chiami il comandante, in fretta. Per carità, in fretta.

Mi guardano stupiti e increduli, il kimono tra l’altro si apre in continuazione sul corpo nudo creandomi un imbarazzo solo iniziale.

E arrivo quasi per prima vicino alla porta della loro cabina, subito dopo mi vedo accanto l’ufficiale di quella sera, che arrossisce a vedermi così. Sono sconvolta e seminuda.

Da fuori nessun rumore, ma il balcone è lontano dalla porta.

Sforzandosi di non guardarmi il seno, mi dice serio:

   “Occorre aspettare il capitano, solo lui può decidere se entrare senza un permesso e solo su una segnalazione, tra l’altro verbale, per un alterco di coppia.”

Devo averlo guardato in modo truce perché abbassa lo sguardo. 

   “Mi dia le chiavi, e lo faccia subito. Poi mi denuncerete. Quei due si stanno ammazzando di botte!”

Entro, nessuna traccia nella piccola anticamera, nessuna nella camera da letto, solo qualche vestito in giro, un cappello appoggiato su una poltrona. Fuori, mi interessa il fuori.

E fuori non c’è nessuno. 

Il tavolino in vetro è in frantumi, piccoli fiori bianchi sono sparpagliati sul pavimento. Qualcuno di loro è macchiato di rosso. Sangue, è sangue. E ce n’è molto lungo il parapetto. Fra i vetri rotti faccio in tempo a notare un ciondolo di ambra, è ancora nella sua custodia. Appena smosso. 

Ha la forma di una goccia, so che si chiama lacrima.

Tutto il resto era prevedibile. Luisa mi porta un abito per coprirmi, il capitano ferma la nave, chiama la polizia, mette in mare una lancia per cercare i corpi, se ci sono. Tutti gli ospiti sono invitati a entrare nelle proprie cabine perché non sia intralciato il lavoro degli agenti.

Io no, io sono trattenuta nell’ufficio del comandante. E lì racconto quanto ho visto e sentito. E piango. Piango talmente tanto che vorrebbero darmi un tranquillante che rifiuto. Chiedo invece la presenza di Luisa, che una volta tanto non parla. La notte le chiedo di dormire con lei, tenendomi vicina al suo corpo.


Restiamo molti giorni a Bergen prima che la polizia lasci salpare la nave. 

Comunico molto presto al mio capo le notizie più importanti, decisa ad abbandonare l’incarico. Non me ne importa nulla delle sue motivazioni legate all’immagine della compagnia, dei ricavi maggiori o minori a seconda dell’utenza. Mi sembrerebbe ora di spiare la vita delle persone, di essere un’ombra acquattata in un angolo.

Il resto del viaggio lo passo in un’altra cabina che il capitano mi ha messo subito a disposizione. Il resto del viaggio lo passo con Ferdinando il più possibile, con la sua dolcezza e la sua pacatezza. 

Mi commuove il suo darmi il braccio per la nostra passeggiata serale sul ponte, mentre lui mi insegna la posizione delle stelle e i nomi delle costellazioni. Abbiamo parlato poco di ciò che ho visto quella sera e dei corpi non trovati, trascinati dalle forti correnti chissà dove. Solo poche parole le sue, nei giorni immediatamente successivi.

“Bambina mia, non darti pena, ognuno sceglie in fondo la vita che vuole per sé. Quella era stata la loro scelta. Vieni qui, appoggia la testa sulla mia spalla. Sono ancora capace di consolare una donna, per giunta meravigliosa come te.”


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