Oltre il senso per la cura
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Oltre il senso per la cura

diRoberto Masi

È da poco uscita per l’editore Marco Saya la seconda raccolta del giovane poeta foggiano Giammarco di Biase: Solo le bestie, opera nella quale l’autore si spoglia dei fragili orpelli dell’esordiente per mostrare la nudità più oscena, la struttura del riscatto, il tarlo di quella voce interiore che il più delle volte rimane inascoltata. La parola ‒ l’unica arma in grado di percuotere la carne senza lasciare segni evidenti ‒ trova in questi componimenti la sua nemesi sintattica. Il foglio si fa organo da incidere per squarciare il velo della ragione attraverso il disfacimento morfologico, e infine raggiungere il nucleo dell’inesprimibile: l’assordante silenzio della solitudine umana. Tuttavia, non dell’uomo si parla in questo luogo di spazi bianchi, né in fondo davvero della bestia cui il titolo sembra fare riferimento bensì dell’istinto ancestrale alla distruzione di ogni chiodo ricevuto nel percorso esistenziale di tutti noi. Per farlo, è necessario che tali chiodi siano riportati alla luce senza che ne venga attribuito alcun ordine tutelare né tantomeno temporale, in una forma svincolata dal senso in cui la singola parola riceve il legittimo risalto, la più efferata (ed efficace) risonanza. In questo, di Biase è maestro e fa della propria opera un esercizio incompatibile con ogni catalogazione di genere, dal quale però far emergere il ritmo e la cura, la spinta istintiva e la disposizione spirituale. È, di fatto, una divinità bestiale quella ch’egli ricerca, e poco importa che ne abbia o meno coscienza in  scelto suo malgrado quale tramite tra il fango… e il sacro: dissacratore blasfemo del dogma cui ci aggrappiamo per non sentire il peso del naufragio.

Prendere il volto e dirlo / negli stormi, come quando fa acqua / e hai aperto con questo il presente. / Di tutti non resta un volo che faccia / parola nelle mani. Se apri / il sangue nella luce / hai già scritto tutto quello che commuove.


Sebbene la tensione poetica si manifesti anche (non solo) attraverso l’abbandono di ogni intento chiarificatore, uscire dal senso come sovente capita a Giammarco di Biase è una forma di ribellione assai rischiosa, un grido la cui eco risuona solo grazie alla musicalità del verso. Essere assuefatti all’ovvio ci conduce al pregiudizio, ma vivere la poesia come accoglienza ci permette di rompere il tabù dell’inferenza logica senza per questo votarsi astrattismo sconclusionato (cialtrone, privo di studio e soprattutto presuntuoso) come ormai troppo spesso avviene. Dunque, una poesia che si ribelli all’ovvio pur trovando una propria coerenza è cosa rara ma vitale, preziosa scuola di resistenza al paradigma educato che, pur faticando a oltrepassare il concetto di prossimità, si traduce in forme apparentemente ostili alla tradizione e proprio per questo degne di attenzione. In tutto ciò, la forza espressivo-figurativa di Solo le bestie si presenta come una forma assai coerente di distrazione, qualcosa che non chiede ‒ finalmente aggiungerei ‒ di empatizzare con l’opera né tantomeno con il suo autore, ma di cadere in essa, di lasciarsi catturare dalla gravità lirica di versi lanciati come folgori, dalla narrazione di ogni singola parola che supera il silenzio per farsi carico di tutto il peso dell’esistenza. Essere nella parola come forma di contegno universale, come amuleto che non esplicita ma ci sorprende attraverso il dono del linguaggio, delle sue forme, del suo infinito potenziale che se da un lato ci permette di comunicare restituendoci l’illusione di un presunto dominio, dall’altro ci mostra l’ineffabile solitudine cui siamo destinati.


Sulla fronte una cimice, il ricordo paziente / di una traversata. Sulla lapide le parole che servono / a qualcosa perché nelle ere abbiamo pensato / a una scatola così che anche l’affare dei transiti e / dei salti fosse possibile. La comunicazione resta / intatta quando un filo di fiore fa come per avvicinarsi / all’orecchio, a un muro per salparlo. Il cimitero / a quest’ora ingoia pochi santi, una voce di cornacchia / da due spicci che gracchia ma se pensi alla modernità / tutto è possibile, anche la rabbia di un figlio.



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