Osservazioni sopra lo stato di cose presente, ovvero: nunc nemo dicat non audiri tonitrua
Elio Scarciglia, I volti di Roma, Museo del Vaticano

Osservazioni sopra lo stato di cose presente, ovvero: nunc nemo dicat non audiri tonitrua

diVincenzo Crosio

L’accentuarsi della crisi di sistema, mettiamola così, che riguarda un po’ tutto l’assetto di una civiltà che fa fatica sostanzialmente a sopravvivere a se stessa, (bel paradosso questo!) è frutto di una vacuità melensa degna della fine dell’impero romano d’Occidente in una fase direi tra il comico e il tragico quale viene descritta in una cronaca delle Storie di Ammiano Marcellino in cui tra equivoci, nequizie, insoddisfazioni, rapine e dispregio e sottovalutazione delle forze nemiche, più l’imperizia strategica e la codardia dell’imperatore Valente, l’esercito romano fu sconfitto in modo clamoroso dai Goti, che mossi in primis da volontà pacifica, si tramutarono nel peggior nemico che i Romani potessero incontrare. Volgeva l’anno 378 ed era, si era oramai nel caldo umido delle pianure intorno ad Adrianopoli : il 9 agosto l’esercito romano dopo varie vicissitudine e variazioni tattiche in inutile attesa dei rinforzi del generale Graziano, venne battuto dai Visigoti d Fritigerno, che inaspettatamente fecero quello che avrebbero dovuto fare i Romani: attendere l’attacco dello spiegamento nemico frontalmente per poi accerchiarlo a tenaglia. L’esito fu disastroso per i Romani che furono annientati e altrettanto indecorosa la fuga dell’imperatore. Cosa che fu rilevata da uno scienziato filosofo della guerra di nome von Clausewitz che si convinse che non necessariamente un esercito potente e forte e per equivalenza una nazione o una coalizione di nazioni forte sia destinata a vincere. Questione che fu teorizzata e praticata prima da Mao tze Dong e il suo esercito popolare rivoluzionario e poi da Ho chi Min e Nguien Giap nella guerra del Vietnam che possiamo dire abbiano inaugurato le guerre ‘regionali’, di intere regioni in questo caso asiatiche. Ma il globalismo del Capitale ha spostato le frontiere, reso nomadico e imprevedibile lo stesso capitalismo finanziario, coinvolgendo industria, scienza, alleanze e territori in una specie di guerra senza frontiere e senza fine. Ciò che viene identificata come la Cyberwar, la guerra cibernetica non è altro che questo infinito cervello piovra del Capitalismo globale che tende ad identificare nella guerra senza limite e senza fine, il proprio piano di esistenza dentro uno spazio e tempo che non ha nulla di ‘reale’, nel senso che la realtà viene identificata ogni volta che lo scenario di guerra muta. E così il tempo diventa tempo mutato e mutante in relazione a questo cambio continuo di scenario spazio-temporale non più ciclico ma frammentato, in una continua battaglia a somma zero, laddove si vince si rischia pure di perdere. E a sua volta ‘la politica’ tende solo ad accennare una risposta, troppo lenta e balbuziente al variare dello scenario psicolinguistico di una assenza:il suo fine  è anche la sua fine. Stranamente non è la storia umana a finire ma è lo sguardo politico ed esistenziale-filosofico che non è più in grado di seguire la motilità ed imprevedibilità di questo scenario eternamente mobile. La parola del filosofo si incaglia laddove la punta di un missile stratosferico si abbatta su una armata, su un territorio o sopra un supermercato. Lo sguardo filosofico esistenziale non può nulla contro la barbarie tecnologica, come non lo può la parola poetica perché fuori contesto, ma attenzione non fuori dell’orizzonte di un tempo che è altro, che parla o dice dell’altro, di una attesa che il tempo della fine sia finalmente finito. Dentro le macerie di un epoca, non c’è altro rimedio che l’attesa della fine del tempo storico, cronologico ovvero di questo tempo che trasforma nella banalità seriale le vite di ogni essere che sia dovunque. Questo essere dovunque di ogni essere, nella sua povertà egualitaria, privato di tutto, egli riscopre il suo essere non tutto ma in ogni dove uguale a se stesso e agli altri. Se ci fosse semmai, se fosse mai possibile una epistemologia della Shoah, essa per paradosso assurdo e inspiegabile, sarebbe ,solo in questo, rendere all’umanità una prospettiva di prossimità, una volta privata di tutto, resa nella sua nudità povera, privata di tutto,  prossima, più vicina all’altro. Come se per inverso fosse stato detto: ‘Io non li farò a mia immagine e somiglianza, ma a mia immagine e al suo contrario’. In ebraico questa espressione,(l’immagine e il suo somigliarsi e l’immagine e il suo non somigliarsi, cioè la sua ombra) assume ancora di più i toni ultimativi. Allora probabilmente il pensiero filosofico divenuto non pensiero e la parola poetica divenuta non parola, potrà finalmente reclamare il suo diritto alla verità-Questo tempo, che non è ancora tempo, ma che si costruisce come il tempo nuovo, l’inframezzo, è il tempo poeticamente palingenetico, dove lo spazio linguistico di una caduta ‘vocalica’, di una voce è la premessa al suo divenire ‘phonè’ e  canto- Dunque paradossalmente nello Stato della iperdromicità della comunicazione e  degli eventi, la società dell’accelerazione temporale di ogni cosa, definizione così cara a Paul Virilio (Velocità e politica: saggio di dromologia, Multhipla, Milano, 1981),di una sistema di  matematica ingegneristica alla G. Guillaume(Foundations for a Science of Language, John Benjamins: Amsterdam/Philadelphia, 1984).che ricalca le curve di espansione geometriche, ecco che in questo scollamento tra Stato del Ciberspazio universale e società scomposta in nuove tribù e nuove nazioni, la parola acquista il suo valore originario. La parola diventa l’unico vettore di una verità possibile, di una pragmatica della comunicazione che scoprenell’uomo, le categorie dell’umano:il pensare, il vivere comune, i generi e le sostanzialità dell’agire politico, intorno a cui nascono nuove comunità di destino. Dove siano orientate non lo sappiamo, ma sappiamo che obbediscono ad una necessità di non dominio e di esperienze comuni, dove sempre più spesso la solidarietà nel dolore scopre un lato germinativo di senso. Per sfuggire alla morte della guerra e della fame, esse comunità sviluppano per forza di cose non lo spirito tribale ma di quello di essenza comune; sono in realtà esse stesse insieme e insiemi non alienabili. Intorno a questa ridefinizione di Stato dispotico della guerra da un lato e delle nazioni di nuova democrazia, ruota in realtà un vortice di senso nuovo, l’aggregazione per spazi comuni materiali ed immateriali. In questa lotta tra libertà necessaria e morte quasi inevitabile, di catastrofe inevitabile, il genere umano diventa di per se , per forza di cose,  genere di diritto universale, la generalità dell’umano. C’est- a- dire nella sua morte la sua resurrezione.


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