Lungo il meridiano (prima parte)
Foto di Elio Scarciglia

Lungo il meridiano (prima parte)

diLucio Macchia

La mia letteraria vacanza estiva avviene nelle u-topie, lungo il Meridiano di Celan. Questo il mio “diario di viaggio”: personalissime note di lettura, a margine del mio sentire. Non un’esegesi, non uno studio comparativo, ma un incontro. Un cammino errante. Di risonanze.

Il Meridiano è una prosa di Paul Celan, tratta dal discorso da lui tenuto nel 1960 in occasione del ritiro del prestigioso premio Büchner. La prosa si presenta come un’allocuzione verso il pubblico, inerente al tema del senso della poesia e dell’arte. Il procedere è analogico, per salti e invenzioni, con un linguaggio spesso inafferrabile, con un intento più meta-poetico che descrittivo. Come afferma Bevilacqua, nella prefazione dell’edizione Einaudi da lui curata, «l’interpretazione di queste pagine altamente intuitive è affidata all’intuizione». Così quindi decido di affrontarle, come un alpinista in solitaria su una montagna impossibile. Non la conquista, non il “capire” ma in comprendere, il prendere con me qualcosa da questa prosa poetica che immediatamente sento essere una cornucopia di illuminazioni.

Già l’inizio è folgorante. Celan riprende un passaggio di «Morte di Danton» in cui il personaggio di Camille Desmoulins polemizza sull’arte, ne evidenzia la natura di «essere marionettesco», la finzione, l’artificio. Agli uomini che vanno in visibilio per il teatro, per la rappresentazione della vita, la vita stessa sfugge. Büchner fa dire a Camille: «se uno lavora d’archetto su un’aria d’opera che riproduce gli alti e i bassi dell’animo umano come una pipa di terracotta piena d’acqua riproduce l’usignuolo – ah, questa è arte! […] Della creazione che, incandescente, fragorosa e piena di luce, attimo dietro attimo si rigenera intorno a loro e dentro di loro, non sentono e non vedono niente». E sta qui riflettendo sul senso dello stesso scrivere, su come l’arte può divenire una sorta di sviamento, di equivoco, di inautenticità. E la vita un teatro dove «alla fine ci pugnalano sul serio» (sempre Büchner). Celan si inserisce qui. Se Büchner fa arte marionettesca e nello stesso tempo genialmente la critica, la problematizza, come se entrasse e uscisse dalla sua stessa finzione, allora l’arte stessa è un discorso, «una conversazione», «che ha luogo non nella Concergierie» (luogo emblema dello spazio scenico storico e collettivo della pièce) «ma in una stanza» (luogo del privato, in cui Camille pronuncia le sue riflessioni sull’arte). Potremmo forse dire, in un topos della vita – nella vita stessa – e non in un sito eminentemente teatrale. Questo filo attraversa tutto lo scritto celaniano: il tema sembra essere quello di ritrovare una parola che sia propria dell’esistenza dell’individuo, della sua originale vicenda umana, al di là dei rischi dello scivolamento nelle macchinazioni intellettualistiche delle finzioni. Una parola libera e liberata.

L’arte – prosegue Celan – potrebbe essere un discorso che continua all’infinito (un gioco linguistico, viene da dire) ma tale continuità è arrestata dall’accadimento. «Qualcosa accade». Il linguaggio artistico non si perpetua su se stesso ma confluisce sull’evento-creazione. Un evento (Ereignis) heideggeriano, in cui la dimensione dell’autenticità irrompe ancora. Vi è ancora la possibilità – nel dire – di un accadimento di senso.

L’evento apicale su cui Celan si concentra è la voce del personaggio di Lucile. La sua rivolta che scombina la messinscena. L’esclamazione «Viva il re!”» che il personaggio pronuncia alla fine del dramma, in preda al dolore per la morte al patibolo del marito, viene interpretato da Celan in un modo completamente divergente. Quel grido ha, per lui, la capacità di sovvertire la macchinazione teatrale, di riportare nella dimensione autentica della vita. È «l’antiparola, la parola che strappa il filo». E ancora: «è un atto di libertà. È un passo». È una sfida al mondo, inscritta nell’adesione all’istante presente (Celan dichiara di apporre su questa anti-parola l’accento acuto del presente, piuttosto che quello grave del passato, o circonflesso dell’eterno). È arte che s’incarna nella vita. È poesia. Forse. Perché Celan procede costellando di “forse” l’intera prosa. Come è giusto che sia. In fondo lui stesso ha scritto il verso «dice il vero chi dice ombra». Ci rimane comunque – potente – l’immagine della poesia come pronunciamento che sovverte la parola, che taglia i fili delle marionette. Che rivela, disvela.

Più avanti, Celan, sempre in modo rizomatico, si volge verso un’altra opera büchneriana, il Lenz. È il racconto di un uomo inquieto, assediato dalla follia, che si mette in cammino nelle foreste dell’Alsazia, dove si perde, fino a giungere a un villaggio e venire accolto, ma solo per ritrovare il dramma della sua condizione angosciosa. Durante la permanenza nel villaggio, Lenz riceve la visita di un amico e con lui discorre d’arte (su questo episodio si concentra particolarmente l’attenzione di Celan). Seguono peripezie ulteriori di Lenz attraverso il suo eccesso incontenibile (l’opera è incompleta e lacunosa, paradossalmente come il suo stesso protagonista). Oltre l’interruzione dell’opera, Celan non si arresta e va a cercare il Lenz storico che ha ispirato il racconto, fino a rintracciarne la tragica morte, solitaria, tra le strade di Mosca. Una serie di gemme emerge da questo prodigioso scritto büchneriano: Celan le preleva chirurgicamente e, mostrandocele, mostra se stesso e la sua poesia. E noi, a noi stessi.

Come dicevamo, Celan punta il riflettore su una scena specifica del Lenz, quella in cui il protagonista discorre d’arte con il suo amico, e si scaglia contro l’idealismo, a favore di uno stile naturalistico. Viene presentata la metafora dell’arte come Medusa che pietrifica la natura nella sua perfezione e la eterna. Ma non è così semplice. Piuttosto, qui Celan sembra evocare un ritorno alla vita, «alle cose stesse» mi viene da dire husserlianamente. Intravede, nel testo büchneriano, una «contestazione» ad una certa idea dell’arte come oggetto a sé stante, incondizionato, «come alcunché di dato». Emerge il fantasma del gesto di Mallarmé. Il perfetto dispositivo poetico mallarmeano sembra profilarsi come il protendersi indimenticato a una poesia dell’astrazione, della perfetta costruzione di meccanismi autonomi. Un paradiso, ma irrimediabilmente perduto, nella ferita nichilista della storia, nella decostruzione di ogni discorso. Bisogna tornare a interrogarsi. Contestare. Affondare i denti nella carne del linguaggio. Ma non esiste una risposta. Solo un vagare – a rischio della demenza – come in Lenz.


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