Inediti di un giovanissimo autore, Elvio Carrieri
Gaspare Canino, Senza titolo

Inediti di un giovanissimo autore, Elvio Carrieri

diEmanuele Scarciglia

Elvio Carrieri, ha diciotto anni e scrive già  da qualche anno. Le sue poesie sono apparse su Nazione Indiana, La Repubblica, Dantebus e sono state editate da Aletti editore.

Dichiara:  "Ammiro il vostro lavoro e vorrei ridare vita ai miei testi sulla vostra rivista. Sarebbe una bella soddisfazione dalla quale poter ripartire".


Poema sinfonico

o canto dell’odio e del compostato


È il tempo dei margini e sta finendo

Cosi sarà giusto chiedersi

Dove siamo diretti, in quale specchio

Si sfalderà la nostra imitazione

Ma viaggiare

Da limite a illimite è un rischio

Bisogna imparare a star muti nel centro

Dove cadranno gli asfalti

Gli IBAN, i codici di accesso

Che spesso si violentano nella memoria

E va imparata, l’arte del carbonio

L’urlo di una poesia sciolta nell’acido

Il gesto del progresso, il sogno erotico

L’orrendo orgasmo

Impastato nella terra

Va assorbito l’acido odore

Di questo fango pieno di compostato

Su questa terra compressa va scritto

L’imperativo del terrore

Annullare il verso

La memoria della lettera

Bisogna sputare in faccia al raccolto

Come veri malviventi 

Con l’incudine dell’unghia

Scheggiare la bussola antica del tempo

Solo così impareremo a invecchiare

Vivere al centro

Non è cosa da poco

Si tratta di lamine, di movimento

Si tratta di cenere che è liscia, silenziosa.



Eῖδος

Su un esemplare di scheletro


Non è disprassìa

Sono i tratti della bocca

Che proprio non mi piacciono

Fanno paura

Quanto un’antica maschera cinese

Sono i muscoli striati

Maledetti, inesistenti

Lavativi corrotti sicuramente

Abominevoli

Che si rendono al cospetto della mente

Non è disprassìa

Non è una colite che mi semplifica

Fosse solo così facile

Dissolversi nella malattia

Non è neanche la gola

Che perderò con la giusta postura

A rendere giustizia

Non sono le anche, il costato

Gli accenni di scabbia

O forse è la signorìa

Di quel ventre colluso e sprezzante

E di quel feudo che chiamo stomaco

Che mi rigo come una bestia

E trasporto come una missiva

A rendere giustizia è la paura

Non è mica disprassia

Questa assurda involuzione

In-volontà di muoversi

Forse è solo lo scheletro

Forse fargli giustizia è impossibile.



Ci ho messo appena tre anni


Ci ho messo appena tre anni

Per farti capire

Che quelli che scrivo non sono ditirambi

Sottesi, o peggio ancora

Poemetti in prosa, o sperimentazioni

Illuminate, contusioni insomma

Di una qualche singolare zona del cervello

Ho tentato addirittura

La mossa del malmenato

Dell’uomo scheletrico

Un Kafka ancora più secco e ancora più magro

Ci ho messo appena tre anni

Per capire e poi dimenticare

Effettivamente cosa fosse un ditirambo

C’era poco da fare in fondo

Oltre che tornarmene da solo a scavare.



A un Bestiario del passato


È facile sorprendersi se a tratti

Anche l’ombra soggiace a un’altra ombra

Tanto diversa quando si compone

Copre per sé, come se fosse il tutto

Come se a un tratto il buco nell’asfalto

Lo scheletro sventrato dell’uccello

Mi ricordassero che sono un uomo

Che sono vivo e anch’io porto uno scheletro

Ed anche lui con me si porta un’ombra.

Dal bianco dei miei occhi calcinati

Li stringo in mano, annodo le falangi

Sciolgo le trecce e il groppo delle vene

Dalla stanca parabola che formo

Sul limite, sul bordo della strada

Fino a dove la calce si costringe

Sento la crepa, il tratto che non bada

A ricongiungersi, la mente che straborda

E non recide, e neanche mi determina

E non occorre il ghigno del coltello

L’amplesso che fa il rame nell’acciaio

Non occorre il silenzio del portone

Altre falangi, altre capigliature

Luoghi migliori, altre nevrastenie

Tutto ciò non occorre per salpare

L’ombra comparirà, si farà netta

Verso una consuetudine che attende

L’ombra che niente vuole e niente prende

Fino a dove la calce si costringe.



Neuköln


La turbolenza scorre sotto i polsi

Allora in ordine

Cedono petto viscere carni

Caviglie accorpate nel decollo

La convinzione

In aria c’è l’odore di una congiura

Dove dorme il dolore

Commisto alle orme

La turbolenza scorre sotto i polsi

Così con eleganza si ripiega al padre

Che faccia la sua volontà

Ma non troppo di getto

Non in modo così barbarico

Qui fuori da me la convinzione

Il tanfo delle biomolecole che brama

Sono pronto a disgiungermi

Dov’è la presunzione

Nel credermi parte di questa creazione sigillata

Il capitano parla in portoghese

In aria c’è l’odore di una congiura

E il vecchio con l’occhio bionico

Ancora non si siede

Chissà che aspetta a farsi volontà

Cosa gli costerà mai arrivar fin qui

Stracciarmi il doppiopetto

Coprirsi il volto sfigurato dalle piaghe

Guardarmi nelle tempie

Aprirsi l’epicardio

E sputarmi nel cuore 

E dirmi sono qui per te che tremo

Non così

Non in modo così barbarico

Il padre non può cedere alle mie lusinghe

La mia volontà

deve farsi signora

La mia congiura deve avvelenarmi da sola.



Quasi un Lied


Certo mi guardi

Come farebbe un’avèrla

Sul palo che è il ramo

Dove poi finirei scorticato

Credo fra poco

Dovrei darmela a gambe senza ritegno

A che pro finire poi

Con un rametto in mezzo allo sterno

A mo’ di antica preda

Tu avèrla che mi sanguini

Inumata a sacrificio metropolitano

Certo l’istante

Di me col collo aperto in due

Sopra un’antica quercia

Le mani soppresse

Braccato come un selvatico

Odore di muschio felci sorprese

Sotto di me che muoio

Sopra di me che sanguino

Tu avèrla che mi guardi

Di me non puoi farne che questo.


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