Povere creature!
Immagine tratta dal film "Povere creature"

Povere creature!

diTeresa Mariniello

L’ultimo, stravagante, affascinante, film di Yorgos Lanthimos ha suscitato consensi non solo tra il pubblico e la critica ma ha anche vinto il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2023 ed è stato insignito del Golden Globe come migliore film.

Tratto dal romanzo di Alasdair Gray del 1992 racconta la storia del corpo di una donna morta suicida a cui il dottore e scienziato Godwin Baxter (Willem Defoe) trapianta il cervello del neonato che portava in grembo. E, si badi, avrebbe potuto riportarla in vita il dottore, ma che senso avrebbe avuto farlo se la donna aveva scelto la morte?

Fin dall’inizio dunque il film “Povere creature!” si annuncia come un film sulla libertà.

Una libertà complessa perché non solo legata al libero arbitrio ma allo sviluppo di una coscienza scevra dalle sovrastrutture che l’ambiente circostante impone sin dalla nascita ad ogni persona. 

Nella fattispecie, la persona abita un corpo di donna con una mente di bambina. 

E questo fa la differenza. I passi sono malcerti, come di chi sta imparando a camminare, i suoni emessi dalla bocca sono sconnessi e disarticolati, come di chi sta imparando a parlare. In questa prima parte del film il regista usa il bianco e nero per le sequenze che filmano una Bella (Emma Stone) chiusa e protetta nella casa del suo “padre” dottore e scienziato, che non a caso sarà da lei chiamato col soprannome di God. 

A mano a mano che la protagonista comincia ad avere non solo la percezione del mondo esterno, accompagnata a quella del suo corpo, ecco che prende sopravvento il colore nel film. E sarà quando scapperà per vivere un’avventura sessuale con il focoso avvocato Duncan (Mark Ruffalo), attraversando e vivendo in città lontane da Londra, come Parigi e Lisbona, che il colore diventa accesso e prorompente, scardinerà i contorni delle cose e dei paesaggi facendoli diventare onirici o fiabeschi.

In questo viaggio, che è di iniziazione, Bella scoprirà la propria sessualità, definita da lei stessa sin dall’iniziale autoerotismo come “la felicità”, in modo disincantato e gioioso. Scoprirà anche che al sesso sono però legati anche molti altri sentimenti, come il senso del possesso, la gelosia, il desiderio di rinchiuderla e farla sua, da parte dell’uomo che l’accompagna, il sempre più misero Duncan.

In un’ascesa di tipici e presupposti valori di tipo patriarcale Bella trova la sua strada, dice chiaramente ciò che non è, ciò che non vuole, sino a che viene rapita dal suo amante e portata su di una nave da crociera in cui scoprirà, grazie all’incontro con altri persone, la filosofia, la meraviglia, l’importanza del confronto con gli altri, il desiderio di accrescere la propria conoscenza; legge libri spesso buttati dal suo amante ( si sa, è meglio che le donne restino ignoranti), si immerge in realtà più complesse, misere e lontane dal mondo protetto e ricco in cui si è trovata a vivere.

Si ribella Bella alle ingiustizie del mondo e lo fa in modo ancora ingenuo e sognante perché le manca l’esperienza, quel prezioso accumulo di atti, circostanze, incontrate e vissute mediante le quali si acquista conoscenza.

Tutto per lei avviene troppo in fretta perché la mente bambina fatica a seguire gli impulsi del corpo adulto, perché la memoria delle cose è ridotta a pochi fatti e persone, giacchè Bella non sa nulla del trapianto e di conseguenza di chi era prima che questo fosse effettuato.

E come non ricordare a questo punto lo straordinario film “Blade Runner” in cui la protagonista femminile, Rachel, una replicante e dunque una non umana, scopre che i propri ricordi sono solo un innesto di quelli di altre persone e che lei non possiede memoria, e cioè, appunto, quella consapevolezza data dall’esperienza. 

Rachel scappa alla scoperta della terribile verità, Bella invece si addentra sempre più nella sua storia tanto da voler conoscere anche la vita che ha vissuto precedentemente.

Torna nella sua vecchia casa, quella che abitava prima del suicidio, scoprendo tutto l’orrore di un pensiero misogino e maschilista che vuole privarla di provare quella che lei chiama “felicità” per meglio controllarla e possederla.

Potremmo dunque trovare anche un filo femminista all’interno del film perché è risaputo che gli uomini hanno nei secoli passati e, in parte anche oggi, voluto disporre delle donne controllandone il corpo e facendone proprietà maschile.

Sono questi uomini i personaggi che indica il titolo, nella versione inglese addirittura “Poor things”, Povere cose.

Mentre parte delle donne del bordello parigino in cui si prostituisce Bella, per soldi e per piacere, sono persone dotate di empatia, di amicizia, di interesse verso il sociale. 

Ma esistono queste donne? O, per meglio dire, può esistere una donna come la nostra eroina che, non avendo interiorizzato nessuna sovrastruttura sociale, resta libera verso sé stessa e il mondo?

 No, naturalmente non può esistere…

Eppure, guardando alcune scene del film, come quella del ballo in cui Bella lascia il suo corpo libero di esprimersi al di fuori dell’allaccio del cavaliere che cerca inutilmente di guidarla, con i capelli che continuano a crescere a dismisura, attorniata da coppie impaludate in mosse stereotipate, si prova tanto desiderio di essere come lei. Di diventare come lei, senza i corsetti e i lacci della società di cui facciamo parte.

L’ultima parte del film è quella però che tende a definire la sua crescita poliedrica per inserirla in una sorta di famiglia insolita, che potremmo definire in parte qeer, e cioè di un gruppo di persone che vivono insieme per scelte dettate da affinità affettive e comportamentali, al di là dei vincoli e dell’orientamento sessuale.

E questo torna con l’immagine di Bella padrona di sé stessa nel giardino del padre scienziato morto da cui eredita le capacità scientifiche chirurgiche, attorniata dai personaggi positivi che l’hanno sostenuta, mentre in un angolo rumina a gattoni il suo primo e malvagio marito a cui ha trapiantato il cervello di una capra. O meglio, di un caprone.


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