Quel che resta di un ebreo nell'opera di Singer, Roth, Nevo
Elio Scarciglia, processione venerdì santo, Gallipoli

Quel che resta di un ebreo nell'opera di Singer, Roth, Nevo

diGianpiero Berardi

Esiste un sotteso raccordo tra autori lontani per stile, epoca, biografia e lingua, quali Israel Joshua Singer, Philip Roth e Eshkol Nevo? La risposta più scontata a questa domanda, ovvero che tutti loro sono di origine ebraica (Nevo è proprio israeliano) è in realtà quella più profonda e ricca di valenze utili in chiave interpretativa. Si può affermare senza risultare proni ai luoghi comuni, che la matrice culturale semitica calata nell’occidente secolarizzato configuri un orizzonte interiore di tensione profondissima e per certi aspetti peculiare, rintracciabile non solo e non tanto, nella biografia dei tre scrittori, quanto nei personaggi dei loro romanzi.

Prendiamo ad esempio, “Pastorale Americana” di Roth. La figura centrale dell’opera, “Lo Svedese”, è il perno attorno a cui ruota l’avvitamento annichilente del sogno americano, pur incarnato in quanto di più archetipico si possa pensare in proposito, fisicamente e psicologicamente. Seymour Levov detto “lo Svedese”, infatti, si costruisce con apparente naturalezza l’immagine del bravo ragazzo volenteroso e garbato, dell’eroe sportivo del baseball, bianco dai tratti nordici e dall’aura apollinea ideale per l’occultamento del senso di colpa ed inadeguatezza propri della cultura semitica. Eppure nel profondo, “Lo svedese” rimane un ebreo, quindi condannato ad un sforzo continuo per incrementare, attraverso la sua reputazione, la piccola fortuna ereditata dal padre, infaticabile industriale guantaio. Uno sforzo teso anche a non deludere le aspettative sociali su di lui incombenti. Freud lo considererebbe come una personalità schiacciata dal suo stesso Super-Io. A proposito di psicanalisi e di super-Io, è lo stesso Seymour Levov ad attribuire l’inizio del suo naufragio esistenziale e con esso della rovina della famiglia americana-modello che con fatica era riuscito a costruire, ad una vicenda casalinga: “Tutti abbiamo una casa. È lì che va tutto storto”. È un bacio dato sulle labbra a sua figlia pre-pubere, bacio da lei richiesto al padre amato, ad anticipare la metamorfosi malata della fanciulla da figlia affettuosa a ribelle antagonista. Da qui partono vicende dai tratti meta-edipici, il cui esito è la distruzione non solo dello svedese ma di tutto quanto quel soprannome significava, cioè del sogno americano incarnato e realizzato.  

Non stupisce che l’interazione con il mondo dei “Gentili” abbia generato nelle comunità ebraiche d’oltre oceano fortissime tensioni collettive calate nei singoli individui, che sfociavano in un esiziale antagonismo e desiderio di riscatto. Emblematica, in tal senso, è la figura di Coleman Silk, ne “La macchia umana”, altro romanzo di Roth che insieme a “Ho sposato un comunista” chiude una sorta di trilogia. Personaggio estremo, dai tratti iperbolici e quasi surreali, Silk è un afro-americano tenace ed ambizioso e (quel che più conta) dalla pelle particolarmente chiara per la sua etnia, color “zabaione” come Zukerman, alter-ego dell’autore, scrive non senza un amaro riverbero ironico che rimanda alla ghettizzazione razziale dell’America del secondo novecento.  Ironia che si ritrova anche nel gusto del gioco linguistico, quasi un calembour operato con la scelta di dare al protagonista il nome Silk, ovvero “seta”, come la pelle “serica” tipica dei bianchi. Decisione non casuale sia nell’ambito della finzione letteraria, poiché calza a pennello sul profilo anti-convenzionale e provocatorio di Coleman; sia sul piano più strettamente autorale, se si pensa a scelte analoghe, come ad esempio il nome Sylphid assegnato alla perfida ragazzina obesa di “Ho sposato un comunista”, anche lei figlia di una ebrea che nasconde le sue origini semitiche per vergogna. Tornado a “La macchia umana” Coleman Silk si finge ebreo con una scelta consapevole, perché vuole sfuggire ad un’ineluttabile destino di formazione culturale e sociale propria della sua classe. Questo e non altro, infatti, gli avrebbe riservato il milieu americano separatista e razzista del secondo novecento post-bellico. Silk combatte per affermarsi ad un livello superiore e per farlo arriva a recidere il cordone ombelicale etnico-razziale con la sua comunità di appartenenza, in primis con la sua famiglia. In tal senso, la veste ebraica con cui si camuffa gli si confà alla perfezione perché la sua profonda tensione interiore è un continuum con quella della nuova comunità di appartenenza. Personaggio così fantasioso nell’artificio letterario del suo concepimento, assumendo tratti estremi Coleman nella realtà della sua seconda esistenza si allinea perfettamente al profilo psicologico e comportamentale di tutti quegli ebrei così ambiziosi da provare a distaccarsi dalla loro matrice culturale e religiosa fino a riuscirvi. Il ripudio scandaloso delle sue origini e la volontà indefettibile di evadere dalle segrete del suo destino etnico lo rendono simile ad alcuni personaggi creati decenni prima dalla feconda penna yiddish di Israel Joshua Singer. “La famiglia Karnowski” è il racconto di una metamorfosi genetica, la saga dolente ed errabonda fin nel cuore dell’occidente di una famiglia ebrea galiziana. David Karnowski, suo capostipite, figura esemplare poiché attivo negli affari come nello studio del Talmud, mal sopporta l’oscurantismo insipiente del suo shtetl polacco di Melnitz. Sulle orme di Moses Mendelssohn, esponente di spicco dell’illuminismo giudaico, si trasferisce a cavallo del ‘900 in Germania, considerata pur senza mai dichiararlo apertamente una sorta di terra promessa ben più evoluta della Galizia polacca. David inizialmente riesce nel suo intento di integrarsi senza perdere di vista la sua identità profonda di ebreo, ma può farlo in forza di una volontà d’acciaio e di una vasta e profonda cultura. Si afferma in società grazie al suo talento di commerciante, ma non rinuncia alla speculazione religiosa, frequentando assiduamente il dotto Reb Ephraim Valder, sorta di ierofante dell’erudizione cabalistica nel cui retrobottega è allestita una biblioteca ricca di calepini e volumi dalle edizioni introvabili. Anche qui comincia a profilarsi un’inevitabile tensione tra opposti stili di vita e concezioni del mondo. David la risolve con un motto che diventa per lui aurea regola di vita: “Sii un ebreo in casa tua e un uomo di mondo fuori”. Questa sembra essere l’unica soluzione possibile, per quanto schizoide, per evitare l’assimilazione. Ma suo figlio Georg e suo nipote Jegor, nati in Germania, finiscono per perdere le loro radici religiose in un baratro di crisi identitaria che porterà Jegor, nato da madre tedesca cristiana, a desiderare profondamente di essere ariano tra ariani ed intollerante verso le sue stesse radici paterne giudaiche, proprio all’epoca dell’ascesa di Hitler e dell’affermazione del regime nazista. 

La parabola generazionale dei Karnowski, saga dell’esodo moderno verso la terra americana, non “promessa” ma tollerante, dove tuttavia esplode drammaticamente il profondo disagio del “mezzosangue” Jegor, mi pare riallacciarsi, sul filo del ribaltamento paradossale, ai personaggi de “La simmetria dei desideri” di Eshkol Nevo. Qui la prospettiva esistenziale si muove in un contesto rovesciato rispetto a quello dell’adagio “Sii un ebreo in casa tua e un uomo di mondo fuori”. Il romanzo è ambientato tra Haifa e Tel Aviv: quel che c’è fuori dall’uscio di casa, dunque, è lo Stato di Israele! La storia racconta di un’amicizia tardo-adolescenziale che si consuma intorno alla promessa rituale fatta da quattro ragazzi che si accingono a guardare in TV i Mondiali del 1990. È dunque una narrazione corale che pertiene alla sfera privata, squisitamente occidentale nello stile di vita dei protagonisti e dei loro destini variamente intrecciati, una sorta di “presa di coscienza romanzata” dell’età adulta più che un romanzo di formazione. Gli ambienti privati e i luoghi di aneddoti e ricordi di cui è intriso il romanzo non sono diversi da quelli di una qualsiasi città occidentale, la dimensione domestica è nient’affatto “ebrea” come la intendeva il David Karnoswki di Singer. I ragazzi si sentono perfettamente a loro agio nel contesto privato. Al contrario, manifestano un profondo disagio fuori dall’uscio ci casa, in qualità di israeliani in Israele, di ebrei per le strade di Tel Aviv. Ad un certo punto, l’io narrante fa dire ad Ofir, uno dei protagonisti: “Tutto è diventato così rozzo, così brutale. Voi qui, in questa città, credete di poter sfuggire. Di essere cosmopoliti, credete. Stronzate. Qui è il peggio. Tutti in questa città se la tirano da liberali, ma di fatto tutta la liberalità si traduce in fumare erba. Manco per sbaglio una sincera apertura verso il prossimo.” Nevo fa dire questa cose proprio ad Ofir, che s’è posto culturalmente fuori dall’orizzonte dell’ebraismo e si è dato alla filosofia orientale, al punto da usare, nel suo “j’ accuse” il pronome voi, a rimarcare un risentito distacco dal clima del suo paese. Altro spunto rivelatore del profondo disagio vissuto dai protagonisti nella sfera pubblica e metropolitana di Tel Aviv è l’episodio del “rapimento” di un palestinese in pieno centro, fatto immediatamente denunciato da due dei protagonisti con una telefonata alla polizia. All’altro capo del telefono l’operatore minimizza, riferendosi al rapito: “Non so. Forse si trattava di un RC”, ovvero un residente clandestino, palestinese dei territori occupati che di giorno si nasconde presso il suo datore di lavoro e a cui la polizia dell’immigrazione israeliana dà la caccia. I ragazzi, di fronte alla risposta laconica del poliziotto all’atro capo del telefono, rimangono silenziosi e straniti.  C’è un particolare nella descrizione dell’episodio che ha catturato la mia attenzione. Nevo parla del furgone della polizia migratoria che “rapisce” il palestinese, definendolo “enorme, grande come una balena”. Non ho potuto non pensare all’episodio biblico di Giona, sul quale avevo già riflettuto grazie all’originale romanzo-saggio “Storia perfetta dell’errore” di Roberto Mercadini. L’esegesi corretta del testo biblico è che Dio “dispose” un pesce per Giona: “Il verbo usato in ebraico è manà; indica un conteggio, un calcolo, un progetto. Il mostro è stato fornito, procurato, procacciato a Giona [… ] il pesce lo protegge dall’annegamento, lo trasporta ad una velocità sovrumana [..] sulla terraferma, lo libera vomitandolo a riva”. Mentre la balena biblica protegge, quella evocata da Nevo paragonandole il furgone della polizia, cosa farà? L’interrogativo è inquietante e il ribaltamento di prospettiva, antropologico e radicale.

Questi cui ho appena accennato rappresentano, tutti e ciascuno, elementi distinti e distintivi di una chiave interpretativa univoca. La fortissima tensione esistenziale e personale, il conflitto permanente interiore ed esteriore, la nevrosi culturale dell’ “appartenenza separata” al mondo occidentale, sono nei romanzi di questi tre autori un dato al contempo letterario, storico e metastorico che trapela tra le righe, un elemento che attiene profondamente alla loro appartenenza al “popolo di Dio”; un popolo che ha saputo, dalla Bibbia in poi, raccontarsi senza mai descriversi fino in fondo, senza mai fino in fondo spiegarsi, dovendo piuttosto – per così dire, giustificarsi al cospetto della propria coscienza e del mondo.


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