Quella banda di idioti
Elio Scarciglia, Torre Chianca sull'Adriatico

Quella banda di idioti

diAndrea Fantini

Per arrivare a New Orleans, almeno da queste latitudini, bisogna per forza prendere un aereo e sorvolare l’oceano. Per capire New Orleans, o meglio, per subodorare le mille sfaccettature di un posto tanto variegato e sopra le righe, che si regge nei contrasti e vive di una bellezza originaria e un po’ sghemba, bisogna per forza leggere Una banda di idioti, di John Kennedy Toole. Ma per capire John Kennedy Toole e il suo travagliato e breve passaggio su questa terra, non è sufficiente leggere il suo meraviglioso libro, perché, non è così che funziona. L’autore svela si, ma il più delle volte cela e si nasconde. È così che si fa. L’autore deve guidarci attraverso gli scenari, i ritratti, le trame, e la maggior parte delle volte non dovremmo neanche accorgerci di lui. Deve essere un invisibile demiurgo. E Toole era un autore sublime. Fantasioso a tal punto da rintracciare in un manipolo di personaggi l’anima di una città, appunto New Orleans, come se avesse fotografato un posto per spedirne l’immagine su un altro pianeta.


Molto spesso nella letteratura ci si trova di fronte a una specie di cannibalismo rituale. Una battaglia all’ultimo sangue che vede protagonisti l’autore e l’eroe da lui creato. Quando un personaggio è così forte da imprimere la sua presenza nella memoria collettiva è impossibile che tutti e due possano esistere autonomamente. Ne era cosciente, Salinger. Forse era terrorizzato da quell’assurdità scatenata dalla sua penna. Ma per lui scomparire fu l’unico modo di sopravvivere. E lo fece attraverso il silenzio pubblico. Ignatius Reilly, invece, ha infine divorato l’uomo che lo ha creato. Riesce laddove Holden ha fallito: sostituirsi alla memoria del demiurgo. Non solo nel tempo della vita mortale (cit.), giacché quella battaglia, anche per un grande scrittore, è impossibile da vincere, quanto nella riconducibilità all’essenza stessa del manufatto artistico. Il suo autore morì suicida prima di vedere il suo lavoro pubblicato e da quel giorno ci fu la metempsicosi artistica. L’anima dell’uno confluì dentro quella dell’altro. Ignatius era solo, pronto a divorare tutto quello che c’era nel frigo.

 

Holden è un antieroe verso il quale si prova un sentimento di profonda vicinanza, di fratellanza. Ignatius invece è una figura tragicomica che ci si presenta subito plasticamente: esce dalle pagine offrendosi in tutta la sua arrogante fisicità. Ha grossi baffoni, un cappello da cacciatore con dei copri orecchie e una camiciona di flanella. Soffre di flatulenza, vive con l’anziana madre, non riesce mai in nulla, ma predica, sottolineando quanto il mondo sia privo di “teologia e geometria”. Ama Boezio, Ignatius. Legge continuamente La Consolatio philosophiae e scrive i suoi assurdi trattati morali mentre il televisore acceso trasmette una puntata della Ruota della fortuna. Anche lui è un antieroe. Anche lui ha una certa potenza caratteriale. Certo, più caricaturale e quindi grottesca. Nessuno vorrebbe assomigliargli e nessuno si immedesima, semmai si prova repulsione, ma è un tipo umano davanti al quale ci si ferma a riflettere. Anche se si ride di lui, egli ci fa pensare.   

Ignatius è un moralista, come a modo suo lo è Holden e, come tutti i moralisti è, in sostanza, un amorale. Mangia, peta e scrive così come farnetica, accusa tutto e tutti, sempre preservandosi. Lui divora, ingurgita, passando dalla fame all’indigestione. Afferma che il mondo non è pronto per il suo genio e agisce nel mondo come un outsider tanto puramente malefico quanto maldestro.

Ogni sua azione crea una reazione nefasta. Tutto quello che tocca viene distrutto o subisce una modificazione in negativo. Non realizza nulle tranne il disastro, non conosce mezze misure. La trama della sua vita è un’interazione tra lui e sé stesso intervallata dalla collisione che ha con gli altri. L’altra voce che si leva in questo panorama dispotico è quella di una certa Mirna Minkoff. Una beatnik ebrea che ha con Ignatius un rapporto epistolare. Mirna sembra l’unica a riuscire nell’intento di mettere in crisi Ignatius, cercando di convincerlo a reagire a quell’immobilismo fisico e intellettuale. Lo prega di aprirsi al mondo in uno scambio di lettere che dice tante cose su Ignatius, come se fosse sul lettino dello psicanalista. La pura indignazione di lui, è quanto di più lontano ci possa essere dalla catarsi. Eppure, solo Mirna riuscirà in qualche modo a scavare un minuscolo varco nel monolitico mondo di Ignatius. Anche se la prima svolta si ha quando la madre lo obbliga a cercarsi un lavoro per mantenersi. Tutto questo ha dei risvolti esilaranti, in una trama che monta piano piano, pagina dopo pagina, fino ad avvincere il lettore, ormai intrappolato e incapace di sfuggire alla congrega. Tutto è puntellato sempre da una scrittura che è solo in apparenza caotica. In realtà vige una disciplina geometrica tale da seguire nella sua costruzione, di pari passo diremo, La Consololatio de philosophiae spesso citata dal protagonista. Tutto è, in qualche modo, geometrico. E Insieme a Ignatius assistiamo a una parata di personaggi pittoreschi che si alternano e si mischiano, uno dopo l’altro, uno insieme all’altro, in una polifonia affine allo spirito della città in cui il romanzo è ambientato, anzi potremmo dire, scolpito.  

 

Non avremmo mai saputo nulla, né di Ignatius né di John, se non ci fosse stata la sua vecchia ed eccentrica madre, Thelma che, parecchi anni dopo il suicidio del figlio e dopo una serie innumerevoli di telefonate, decise di portare il manoscritto che aveva ritrovato rimestando tra le cose di suo figlio allo scrittore Walker Percy.  Si presentò una mattina all’università dove Percy teneva i suoi corsi con sottobraccio un plico unto e ingiallito. Chiese di essere ricevuta e insistette per far accettare al professore la geniale opera di suo figlio. Ma prima di quella mattina dobbiamo per forza ripercorrere gli anni che seguirono la stesura del romanzo e che precedettero la morte di John. Il manoscritto venne accettato dall’importante casa editrice newyorkese Simon and Schuster (Hemingway, Fitzgerald, John Irving, Thomas Wolfe).

Questo successe verso la seconda metà degli anni Sessanta. Toole aveva meno di trent’anni. La prospettiva di pubblicare il suo romanzo con un editore del genere lo portò a lavorare alacremente sulle bozze di seguito alle richieste dell’editor che chiedeva delle modifiche. Un lavoro che proseguì per mesi, revisione dopo revisione. Ogni volta il dattiloscritto tornava indietro senza aver soddisfatto le richieste. Robert Gottileb, che aveva lavorato tra gli altri con Heller alla stesura di Comma-22, fu incaricato di coadiuvare l’autore nella revisione del romanzo. Egli riconosceva il talento dell’autore ma pensava che quella storia grottesca e fumettistica fosse invendibile in un paese come l’America nella metà degli anni Sessanta, un paese che stava perdendo la sua presunta innocenza in Vietnam. Un paese in cui un’intera generazione era divisa tra chi andava a combattere e chi restava a protestare contro la guerra. Nelle lettere tra i due è chiara fin da subito la difficoltà delle revisioni chieste a Toole. Secondo Gottileb Il libro era privo di contenuti. Era “disimpegnato” e puramente grottesco. Se da una parte risultava incerta la volontà di accettare il tenore dell’opera, dall’altra si contrappose l’impossibilità di snaturarla. Quello che voleva l’editore era un cambiamento del soggetto e dello spirito dell’opera, in pratica, voleva un altro romanzo. Per quanti sforzi avesse fatto Toole per soddisfarne le aspettative, era ormai palese che fosse impossibile.

Dopo l’ennesimo rifiuto fu chiaro da entrambe le parti il fatto che quella cosa non poteva funzionare. Era tutto finito. Non c’era spazio nel mondo, né per John né per Ignatius e tutta la sua congrega. Non ancora.

Toole ripose l’ultima versione sulla quale aveva pianto e sudato sopra un armadio e cercò di andare avanti. Ma non riuscì a farlo. Dopo pochi disordinati anni decise che era giunto il momento di fare un ultimo viaggio. Prelevò i suoi risparmi, montò in macchina e viaggiò, prima verso la California, poi in Georgia, nella tenuta che fu di Flannery O’Connor, autrice che Toole stimava molto. Se ne persero le tracce, fino al ritrovamento, il 26 marzo del 1969 a Biloxi, in Mississipi. L’auto con il corpo dello scrittore fu ritrovata sotto un albero. Per togliersi la vita aveva collegato un tubo da irrigazione allo scarico della macchina.

Quando Thelma diede il manoscritto a Percy, una decina di anni dopo, lo fece convinta che il libro di suo figlio meritasse l’attenzione del mondo. Il professore dapprincipio fu riluttante ma su insistenza della donna accettò di visionarlo. Si diede un tempo limite, dieci pagine. Finite le dieci pagine si concesse di leggerne altre venti. Dopo non riuscì più a smettere. Il resto è storia. Il romanzo venne pubblicato nel 1980 in tiratura limitata, sole 2500 copie. Nel 1981 Toole ricevette il Premio Pulitzer per la letteratura. Un premio postumo. Venne anche ripubblicato il primo tentativo letterario di Toole, Bibbia al neon, nel quale l’influenza di Flannery O’Connor è palese quasi al limite del plagio. Era un tentativo. Quello che viene alla mente, alla fine di questa storia, è quanto tutto possa essere assurdo e casuale mentre ce ne stiamo qui, a fare i conti con i nostri progetti. E quanto sia difficile sopravvivere alle passioni quando queste sono totalizzanti. Quello che rimpiangiamo, da lettori che hanno amato la Congrega, è il fatto che non leggeremo mai qualcosa di nuovo da Toole. Lo avremmo fatto volentieri. Nell’arte spesso si insinua la tragedia perché l’arte ha a che fare con materia profonda e pericolosa. Cèline diceva che se non metti la tua vita sul tavolo, quando hai intenzione di scrivere, tutto quello che farai risulterà gratuito, puzzerà di gratuito. Questa cosa è tanto vera quanto pericolosa. Ci si ritrova nel “territorio del diavolo”, come lo chiamava la O’Connor in un suo meraviglioso saggio. Salinger è sopravvissuto a Holden perché lo ha abbandonato al suo destino. E così immaginiamo che Holden vaghi ancora come un fantasma per New York, terrorizzato dall’idea del futuro, rimuginando, come un uomo del sottosuolo. Toole, invece, non ne è uscito vivo da quel territorio. Ignatius invece probabilmente è ancora chiuso in casa e, tra una lettera piena di bile indirizzata a Mirna Minkoff e una puntata della ruota della fortuna, ripete come un mantra queste parole di Swift, che sanno di epitaffio:

 

  «Quando viene al mondo un genio autentico, lo si può riconoscere dal fatto che gli idioti sono tutti coalizzati contro di lui.» J.K.Toole Una banda di idioti


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