Carlo Tosetti, La crepa madre
Foto di Elio Scarciglia - Venezia, Carnevale 2018

Carlo Tosetti, La crepa madre

diEmanuela Dalla Libera

Ci sono ricordi che ci restano intrappolati dentro con la forza di un sortilegio, specie se si accompagnano, nella memoria del tempo vissuto, a eventi in cui crediamo di poter leggere qualcosa di affine, qualcosa che accomuni la nostra esperienza individuale a fenomeni più grandi che coinvolgono una comunità, o la fisiologia stessa della natura e del mondo. E il ricordo diventa epos, narrazione che si snoda in un susseguirsi di fatti accidentali o pazientemente osservati nel tempo, ugualmente devastanti, ugualmente bisognosi di un intervento drastico e risolutore. Accade così che un bimbo accidentalmente si laceri un ginocchio (ampio m’aperse il coccio), che la cura per guarirlo diventi sproporzionata (dello speziale lo zelo…pativo) e foriera di ulteriori malesseri (tanto prostrava la cura), e che il candore dell’età, l’inesperienza sorpresa della vita, generi nella sua coscienza turbata e commossa l’attenzione per un fatto analogo ma inumano in cui è possibile però leggere un destino comune agli uomini e alle cose, fuorviato da interventi impropri che danno origine a reazioni inaspettate.

È questo quanto si legge nel breve poemetto di Carlo Tosetti, La crepa madre, Pietre Vive Editore, surreale racconto di un evento confinato nell’infanzia del poeta, che pur partendo da un fatto realmente accaduto (l’aprirsi di una crepa nel muro di un palazzo antistante la casa da lui abitata), sfocia, nel susseguirsi dell’azione e della narrazione, in aure di realismo magico, di sorpresa, di elementi che rievocano popolare superstizione (la crepa, con la luna la notte, calma sutura) e innocente tradizione, tutti sapientemente fatti confluire in un intreccio curioso per la sua singolarità (tematica, compositiva, linguistica) che tanto esula dalle caratteristiche di gran parte della poesia contemporanea. La sua originalità consiste tanto nella lingua (antica, aulica, scoppiettante a volte, basti ricordare il barrito minerale) quanto nella forma, un prosimetro, alla maniera della Vita Nova di Dante o dei Canti Orfici di Campana. Ha una componente magico-fiabesca che sviluppa, delineandola, una storia nel suo accadere, vista innanzitutto attraverso gli occhi di un bambino, circostanza questa che ne amplifica la dimensione visionaria, lo stupore che aleggia sulle cose e sul moto stesso della crepa che agisce come dotata di volontà, di una intenzionalità precisa e sicura. Come non ricordare l’ira del fiume Scamandro nel XXI canto dell’Iliade quando Achille riempie le sue acque di cadaveri e di morte? È la stessa ribellione che muove, indignata, la crepa, all’empio gesto del grossolano Boldo che per eliminarla, la vìola, costringendola, lei “iraconda”, a una fuga incontrollata attraverso la casa, le strade e altri luoghi del paese (reale) in cui la vicenda ha luogo. E questo suo tragitto, “non casuale” fa affiorare un’altra memoria letteraria in cui si compie un percorso simile, surreale e intenzionale, a portare un messaggio in un mondo reale e magico insieme, così come pure la crepa un messaggio pare darlo. In Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez si legge che il filo di sangue scaturito dalla pistolettata di José Arcadio uscì da sotto la porta, attraversò la sala, uscì in strada, continuò in un percorso diretto lungo i marciapiedi diseguali, scese scalinate e scalò parapetti, si lasciò dietro la Strada dei Turchi, girò a destra in una cantonata e a sinistra in un’altra…piegò ad angolo retto…attraversò…continuò…schivò…si infilò nella cucina dove Ursula stava per rompere trentasei uova per fare il pane.     

La crepa che dà il titolo è cosa viva, quindi, dotata di anima, di vitalità, di istinto, se non di sentimento alla maniera degli uomini. E questo dotare le cose inanimate di un pensiero affine a quello umano riconduce al sentimento (inconscio o consapevole) di paritetica appartenenza alla vita dell’universo  di tutte le cose, di una loro uguale dignità ed esultanza nell’esistere. Succede così che il lettore segua con apprensione, direi, e una sorta di sospesa aspettazione, il muoversi repentino della crepa, immagina il suo percorrere strade, lambire spazi, deviare, gelare la linfa ai tassi secolari, distruggere il tempietto da tempo traballante, (e qui pare di cogliere un riso infantile, monello e divertito che accompagna l’ovazione dei presenti), proseguire fino a fermarsi, esausta, in riva al lago, quasi sapesse che da lì non ci sono altri luoghi umani da compromettere. Anche questa sua baldanza fisica ha un che di umano. E il suo risparmiare il parco giochi e costeggiare il cimitero senza attraversarlo denotano una pietà, un sentimento di rispetto per chi è vulnerabile (i bambini, il poeta stesso allora bambino), e per chi non lo è più (i morti), ma che comunque tale rimane per chi è ancora in vita e guarda a questo movimento incontrollabile e irrefrenabile con paura e apprensione e un senso di sgomento e di impotenza. Sovviene allora la natura “bella e terribile” del dialogo leopardiano di fronte alla cui indifferenza l’uomo non può che darsi ad una accettazione consapevole e vinta. Forse c’è dietro a tutto questo il nostro sentimento di meraviglia per tutto ciò che la natura ci propone, siano esse le manifestazioni idilliache e pacifiche di un paesaggio campestre, siano le più virulente esibizioni di fenomeni naturali spettacolari e grandiosi (l’eruzione di un vulcano, i marosi di un mare in tempesta, un temporale apocalittico, una frana rovinosa…). La conflittualità perenne che si legge nel poemetto tra uomo e natura accresce la vis drammatica dell’opera che potrebbe benissimo prestarsi a una traduzione teatrale in cui gli spettatori si troverebbero ad assistere a un evento grandioso e conturbante senza esserne feriti, così come effettivamente, nel poemetto, la distruzione si esercita sulle cose ma, miracolosamente, risparmia gli umani. E in questo senso diventa catartico quanto il poeta dice alla fine a proposito della crepa. Essa non divide, bensì unisce, essa è madre, la cui benevolenza è in qualche modo da riconoscere. Sta a noi coglierla, ritrovarla, incapaci, come il poeta che ne ritaglia un disco nella pietra, di trattenere la gioia, perché in essa possiamo riconoscere segni, geroglifici, alfabeti che appartengono all’umanità così come l’umanità appartiene alla natura, perché tutto è in comunione, animato dalla medesima essenza. E crepa, un misto di vero e visione, saremo allora, come fu l’autore, quel momento.


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