Christian Negri "L'età del ferro"
Paolo Menduni, Napoli è

Christian Negri "L'età del ferro"

diEmanuela Dalla Libera

Tre sezioni compongono questa silloge che si snoda in un susseguirsi di liriche complesse, articolate attraverso un percorso di riflessione e la tensione a descrivere e interpretare la vicenda umana. L’esergo collocato all’inizio dell’opera è già la proclamazione di un pensiero, di un sentire che trova fondamento in un’epoca lontana, mitica e perciò eterna. Proporre le parole di Esiodo e il senso in esse compreso della dannazione insita nell’esistenza umana significa avere una visione precisa di quanto si intende ribadire e lo fanno immagini come quelle che derivano dalle zolle dure di fame e di gelo, la schiena china, il nostro accartocciarsi come foglie secche. Esistenza umana che si risolve nella ripetizione di riti precisi, che ne sono essenza e necessità ma che si riducono anche a una sorta di trappola fatta di quattro mura e nessuna finestra, mentre vacua è la strada che conduce alle strade. Il rito, il rito di vuotare le pozze, sembra suggerire qualcosa di sacro e ancestrale, qualcosa a cui non si può sfuggire, esattamente come non si può sfuggire a un fato determinato, agli abissi insondati del sangue, al destino dell’uomo che è Sisifo o Deucalione. La classicità che si affaccia in maniera ampia nel titolo stesso della silloge, L’età del ferro, in cui si consumano le umili gesta di ogni giorno, riecheggia visioni antiche e poi riformulate nel corso dei secoli, ed è preludio a un poetare denso, compatto, estremamente colto, fatto di parole auliche, termini precisi, richiami letterari diffusi. Così troviamo espressioni come sguardi catafratti, l’amico è un sicofante, e in tutto questo, in questa negatività e insidia dell’esistenza, scordi il tuo seme, porgi nuda la schiena, mentre si fa viva la certezza che avere il capo cinto da un serto di vilucchi non ci salva dalla nequizia. È una poesia ricca di richiami colti questa di Christian Negri, che prende a prestito espressioni montaliane (i venti autunni, le andate primavere, le elisie sfere) o le rimaneggia per piegarle alla volontà di proclamare un pensiero proprio, ossia che la parola sola non reca sazietà alcuna…che si prostra; ma non porta alcuna risposta se non che il fato già segnato è la dittatura antica cui l’uomo ben si sottomette. Oppure riecheggia parole dannunziane nel volto silvano, nietzschiane in troppo umano, e ingigantisce l’effetto magniloquente dei versi con paronomasie, rime interne e non, climax. Un lessico potente, scelte formali e ritmiche ben sondate a fare di questi testi qualcosa di forte e sonoro, inscritto in riflessioni decise che ben potrebbero appellarsi ad altre parole di Esiodo, tratte queste dalla Teogonia e non più da Le opere e i giorni: Date, o Muse, l’oblio dei mali e tregua alle cure”, a noi che bevemmo alla fonte della vita e alla foce ci disperdemmo, a noi che tastammo i sassi…e li scoprimmo pietra tombale. A noi a cui non resta che contemplare la solitudine, non resta che scavare il proprio fardello di carne e di nervi in cerca delle lettere esatte, che spieghino infine chi siamo e chi fummo.

Ci sono anche tratti di malinconia in questi testi, e si avvertono intensi nella seconda sezione, ossia in S. Maria la Vite che riporta ai luoghi dello scrittore, (come più avanti l’aurea statua di San Nicolò), luoghi che a loro volta rimandano a memorie e affetti vissuti. La nonna depositaria della leggenda dei giorni venerandi del convento riecheggia la nonna carducciana dei cipressi di Bolgheri, custode di una novella sepolta con lei. Così se n’è andata, un’estate, anche la nonna del poeta che pure lui sente vicina ancora in quel non odi tu?. Torna ugualmente però il senso della tragicità del vivere nel tempo…inclemente, nel fato segnato e in quell’invocazione di me, Signore, secondo la tua grande misericordia, abbi pietà che sembra unire ciò che il poeta ha imparato dai libri a quanto ha imparato dall’esperienza di vita, dalla storia e cultura del suo tempo, apprese entrambe dal suo luogo di nascita e dai personaggi che l’hanno popolato: il nonno cui le crepe spaccano il volto, o colui che abbandonò vanga, zappa e morì. Perché comunque, in questa età del ferro, l’esistenza rimane calle di dolore, e chi ancora stenderà la sua ombra, lo farà su una terra che altro non conosce che sere.

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