Luca Pizzolitto - Crocevia dei cammini
Paola Casulli - Filippine

Luca Pizzolitto - Crocevia dei cammini

diEmanuela Dalla Libera

È una poesia che si muove pensierosa quella che Luca Pizzolitto ci propone nel suo Crocevia dei cammini, silloge poetica che pur suddivisa in parti è un tutto unico, un percorso organico da cui trapela un’unità di essere e di sentire, un cammino che fonda le sue radici nel vissuto per proseguire oltre, in una direzione che faccia tesoro del passato, attingendo dall’esperienza per promuoversi a qualcosa di migliore o di maggiormente compiuto. È, si direbbe, una poesia di formazione, e il titolo stesso della raccolta ne è una prova evidente. Tratta dal verso di un altro poeta, Pierre Lepori, la parola crocevia suggerisce l’idea di un approdo, di un termine a cui si arriva dopo aver compiuto un tragitto e in cui ci si ferma per trarre ragione da ciò che è venuto prima, in cui si prende tempo e spazio per metabolizzare a fondo l’esperienza compiuta, trarne il bene e il male e conseguentemente operare delle scelte, mantenere o sfrondare, rileggere il tempo trascorso e darne quella valutazione che forse nell’immediato non era stata possibile. È il punto di svolta in cui ci si sente in esilio, ma in cui l’esilio può farsi nuova origine. Nel crocevia si giunge a volte a determinare il proprio destino e l’esempio più illuminante in questo senso sembra ricondurci a quell’Edipo che in un crocicchio aveva trovato la svolta della sua esistenza. Senza giungere al dramma in esso implicito, e alla conseguente tragedia, ci urge pensare tuttavia che anche la poesia di Pizzolitto nasca da un desiderio di ricerca, del perché ogni uomo nasconda in sé una traccia di salvezza, di ricerca della verità dell’esistenza, del vero fondamento dell’essere e dell’esistere per approdare a certezze che forse non esistono, ricerca che inquieta e destabilizza e necessita di altro e di un altrove per sentirsi appagata. La poesia si configura quindi come dialogo con l’oltre dall’immediato, via di fuga da una realtà sentita come effimera, distorta e fuorviante, eterno cercare il mondo/fuggire da noi, ricerca di un approdo che salvi da crocevia di stasi e di incertezze e diventi, in qualche modo, terreno in cui riposare le inquietudini, il senso sconvolto dell’esistenza, perché le cose splendono altrove. C’è un profondo nichilismo nella poesia di Pizzolitto, un senso irrisolto di perdita e di sconforto, il nostro stare inquieti, cieli colmi di rabbia, un ostinato silenzio di Dio, Dio sentito come contraltare, forse irraggiungibile, ma comunque sperato, dell’esistenza umana, giacché dal sangue innocente di Dio/nasce la nostra misera fede, un nichilismo che emerge anche dal dolore silenzioso della sera, dal chiamare casa la luce ferma del mattino, fuori dunque dalla concretezza delle cose umane sentite come paese di pietre e rovine, stelo avulso spezzato dal tempo. Lo stesso mondo esterno, il volto stesso della natura che si manifesta nel gelo delle stelle, nell’afa di agosto, nel mare che si fa scuro e viene la tempesta, è frequentemente sentito come ostile, salvo poi trovare nella dimensione infinita del cielo (si riempie di cielo la mia lontananza) un argine allo spaesamento stesso dell’esistere. Nel crocevia poetico affiorano sentimenti, sensazioni, riflessioni. Perché è anche poesia introspettiva quella di Pizzolitto, e se tutta la poesia lo è in quanto essa scava nell’interiorità negletta dalle cose ordinarie per prodursi nella scoperta o nella rivelazione di dimensioni altrimenti sconosciute, qui, in questi versi asciutti, scabri, essenziali, eppure incisivi come un solco che perdura, c’è un evidente intento di quasi impietoso denudamento, di coraggiosa e ineludibile ammissione. Del resto, la penultima delle cinque parti in cui è suddivisa la silloge, Appunti dal deserto, rimanda con esplicita evidenza al bisogno di una operosa solitudine, a un luogo dell’anima in cui il dialogo con se stessi è reso possibile dal silenzio e dalla presenza di nulla al di fuori di se stessi, una terra antica in cui non sono mai stato, in cui si sciolgono i pensieri, in cui vivere sempre come/un qualcosa di prezioso e/dimenticato tra le mani di Dio. 

Eppure in questo spesso desolato imporsi delle cose sbagliate, le bottiglie lasciate a metà, il cadere di foglie nei giorni d’ottobre, chiari emblemi di cose finite o sciupate, in questa negatività percepita nella vita e nelle cose, in cui anche le mani nascondono un fragile inganno, negatività che rimanda ad altri pensieri poetici (Leopardi, Montale, ma anche, per vie diverse e in mondi altrettanto diversi, Lucrezio, Celan, Ungaretti), c’è la tensione a cercare ancora, oltre il crocevia, in una direzione diversa da quella offerta dalla vita, nella poesia appunto, la nuda parola che si volga ancora in canto, perché andare in pezzi, non preclude la possibilità di fiorire un mattino, e nelle preghiere stanche…nella chiesa vuota- sopravvive il tempo/ed ogni carezza, e splende di un disperato splendore la vita… perché forte ed eterno è l’amore, unica sponda, forse, tra ciò che resta sospeso/e ciò che cade, inesorabile. 

Questa poesia, pertanto, è un viaggio, una ricerca di redenzione, un viaggio iniziato e approdato, e un viaggio da compiere ancora, in cui la parola cammini dà l’idea di un proseguire continuo e ineluttabile perché noi andiamo sempre verso un tempo,/una stagione che non sappiamo. Un tempo e una stagione da scandagliare, da scoprire nello spazio sacro della sera/nel volgere a compimento di tutte le cose…

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