Frassineto di Adriano Napoli
Elio Scarciglia, I volti di Roma, Museo del Vaticano

Frassineto di Adriano Napoli

diEmanuela Dalla Libera

C’è in quest’opera di Adriano Napoli una geografia precisa, un articolarsi di luoghi inscritti profondamente nella mente e nell’animo del poeta, luoghi in cui si respira l’aria di un mito dissolto, di lontananza fisica e temporale, di nostalgia, ma anche un senso di appartenenza totale che sconfina quasi con l’identificazione. Frassineto, che dà il nome alla raccolta, è un bosco, un luogo reale, concreto, un luogo di alberi, erbe, animali, un luogo che è memoria, vita, rifugio, un luogo che è contraltare alla città, alla civiltà che distrugge, deforma, dimentica, sacrifica alle mutevoli logiche della produzione. Si respira a tratti il fascino triste di una fiaba perduta (Tra queste mura un tempo lontano/bambini correvano tutto il giorno…qui dormirono per anni uomini e cose), incastonata tra ruderi e uliveti dove un rumore “sale ombroso dalla valle del cuore” portando “oltre la notte” un silenzio che non si sa dire, e il gelsomino si perde in un “viluppo grossolano di geranei e ortensie”, dove si arresta un tempo che è finito (Qui la modernità è caduta come un meteorite sui tetti decrepiti), ma non per questo impedisce il continuo risuonare di un nome. Dove si cerca qualcosa che il tempo ha irrimediabilmente cancellato coprendolo di erba alta e nemica, intralciando la strada con un cumulo di legna e rendendo il bosco pieno d’ombre, dove nomi stranieri chiedono di essere dimenticati, ma che è anche occasione di rievocazione di gesti, emozioni, sensazioni, un luogo in cui si parla con il se stessi che si è stati e che si vorrebbe, forse, rimanere. 

È una geografia di luoghi e di fiori, le rose, i gelsomini, gli oleandri, il pungitopo, il croco viola, una geografia ricamata di nomi, figure, paesaggi che si intersecano fondendo pendii di colline con onde riecheggianti tempi tramontati. Tempi così lontani a volte da rievocare età perdute, portate in un fragore di cascate nel battito pesante delle ali di una poiana alzatasi in volo. Età che si rappresero nella pietra e che gli esseri umani profanarono misurando ogni cosa, costringendo gli dei alla fuga, privandosi di quel mistero inscritto nel tempo che solo rimane insondabile e inconoscibile nel trapasso dalla notte al giorno, unico momento  in cui il mondo torna  a essere immisurabile. Ma non basta il sogno a riportare in vita ciò che il tempo stesso ha trasformato. La corruzione/trasformazione perpetrata dall’agire umano nullifica il passato, la teleferica è ferma da anni./I carbonai non aspettano più l’inverno. 

Si affaccia ancora, nei versi di questa raccolta, oltre alla memoria, un senso di stupore racchiuso nel propagarsi dei cerchi sull’acqua, un senso di infinito che quasi spaventa, o che resta nascosto nelle infinite ragioni della natura che non furon mai in isperienza (citando Leonardo), da cui consegue una sorta di rimprovero per noi che vediamo passare le stagioni soltanto nelle vetrine dei negozi. L’amore che il poeta enuncia per questa terra è ripetutamente presente nei versi che richiamano immagini a volte minime, la foglia ormai seccata che “cadendo…scatena nostalgie”, “le radici che portano l’aroma del sangue e della sete”, e altre in cui il senso della lontananza si fa struggente e doloroso (un falco accompagnerà solo per un tratto la mia ombra già straniera). Viene da pensare a Pavese, al mito della terra natale a cui si vuole tornare illudendosi che tutto sia rimasto uguale, a Bertolucci e alla sua Casarola ricca d’asini di castagni di sassi, terra di ricordi, amori, scoperte. È un amore che non si lascia distrarre da nulla come quando in Mia sorgente il poeta dice porterò con me un libro…leggerò un rigo appena perché subito lo sguardo si perderà, e si arricchisce altrove, ne Il paese dei frassini, di esperienze che trascendono la fisicità del luogo e portano oltre, a un’esperienza intima e risonante di forte sentire (Qui potrai vedere gli ultimi giorni dell’inverno, e i nomi dell’amore).

Pur essendo scandito in sezioni, la raccolta denota una unità profonda individuabile nella consapevolezza della forza operosa che trasforma i luoghi e le loro funzioni ma nei quali resta un’anima mai scomparsa del tutto. La stessa anima integra rimasta alle persone anche quando, per casi fortuiti, sono trapiantati nelle grandi città e la nonna, arrivata in Piemonte si avvia a piedi nudi verso la banchina come se anche quel giorno andasse nei suoi campi a innaffiare i pomodori. Così, in Sotto l’insegna si legge che c’è ancora qualche vecchia che vende verdura sulle sedie di paglia fuori dagli usci e con il prezzo scritto in lire. E ancora il contadino Salvatore che ripercorre un viaggio antico, ha dita febbrili che fanno fiorire le piante e non dismette l’arte della terra che conosce come le sue rughe.

Si rincorrono nel testo immagini straordinarie di vita, quindi, ma anche di morte, morte dei luoghi, degli alberi (i boscaioli…hanno tagliato un albero oppure A lungo ho cercato il tronco tagliato), di uomini (si addormentò un giorno d’estate il figlio di Martino senza più svegliarsi), e di animali la cui esistenza il poeta cerca, con un rito quasi devozionale, di perpetuare (sul tronco di un albero ho appeso un carme per te), o di ritrovare negli aromi di nostalgia distillati da radici e frutti acerbi.

Morte che è un ignaro spaesamento, un restarsene soli, senza radici, nell’umida terra, senza ricordarsi più di chi ci ha amato. Perché è possibile amare 

…luoghi poveri ai margini della terra,

dove non accade nulla, ma basta sedere

all’ombra di un castagno, e guardare lontano

per domandare all’aria:”Hai visto?

Che bella giornata. E guarda che colore

oggi ha il mare, e che cielo azzurro

sopra di noi.


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