Si resta sempre altrove
Stefano Negri, Monaci birmani

Si resta sempre altrove

diFloriana Coppola

Si resta sempre altrove. Questo titolo è già un profondo indizio di quest’ultima opera di Stefano Vitale, questo sconcerto ossimorico che riprende un contrasto, il conflitto primigenio della creatura umana destinata a una insaziabile fame di esistenza, la ricerca inesauribile di un appagamento tra esistere, essere e non essere più. Un libro che ha ricevuto già grandi apprezzamenti dalla critica letteraria. Una lunga meditazione in versi sulla vita e sulla morte, intesa non come sola fine biologica del corpo ma come enigma del pensiero umano portato a immaginare un altrove, non percepibile con i sensi ma che si annuncia come proiezione dell’io lirico, che diventa pensiero poetante.

E annuncia così una conversazione con i morti, morti eccellenti, e con i vivi, con chi ha scritto e ricercato il senso da dare a questo sforzo del vivere e del morire. Perché di un unico atto si parla.

Ricorda Eugenio Mazzarella nel suo bellissimo saggio Perché i poeti. La parola necessaria, che ESSERE è un fatto di parola. Nominare un mondo, e nello specchio del mondo trovare l’io e insieme la solitudine a cui si appartiene. La parola diventa prossimità intima con un interlocutore immaginato.

La poesia è l’essersi fatta sola, insieme al mondo che vede, poesia della vita che prende la parola.

Heidegger tenne una conferenza, Perché i poeti?, pubblicata poi nei saggi di Holzwege. Affermò che la poesia nomina il mondo, è custodia della soglia del senso, nella carne dell’universo. 

Heidegger studia Holderlin, il poeta del poeta. Leggendo e rileggendo il testo di Vitale e riflettendo con lui sulla dialettica insolubile tra essere e scomparire, si è acceso in me questo collegamento con il saggio di Mazzarella, sulla ricerca linguistica e filosofica che ne deriva.  Siamo “gettati nel mondo” come disse il filosofo e questa condizione esistenziale ci apre un sentiero sofferto verso la consapevolezza, che nella parola scritta ha il suo testimone.

 

Nasce la parola nel dialogo con i morti, interrogare ostinato di chi è vicino assente/ e tocca al coraggio della paura / graffiare la tavola bianca con parole pazienti/…

La poesia è poiesi originaria, prescinde dai generi che vengono dopo di lei, non sono la sua essenza. L’essenza è questo “vedere” nella sostanza di parola, una parola che non descrive ma sente e vede. La poesia può raggiungere il magistrale effetto di far acquistare maggiore consapevolezza di sé, delle disgrazie, dell’abbattimento e dell’annichilimento di spirito. Così affermava il nostro Leopardi, poeta/filosofo per eccellenza.  

La poesia come punto di equilibrio tra apollineo e dionisiaco scrisse Nietzsche. La ricerca del piacere e l’urgenza della ragione che sceglie l’ordine e la regola. In questa guerra interiore prende posizione colui che ha parola e voce,  Stare al mondo è avere parola. Nominare le cose che ci circondano, dando loro sostanza e significato.

 

Nel variare della luce/ ricerco le ragioni/ per gli scarti dell’umore/ tra le sillabe di pietra trovo uno spiraglio/ per contare i respiri uno ad uno/ nella quieta servitù dell’attesa

 

Dichiara Carla Lonzi: mi sono salvata scrivendo poesie, una pratica di autenticità allucinante in cui tentavo di salvare tutti i fallimenti sul piano personale in chiave di autocoscienza.

Carla Lonzi accoglie la poesia come luogo di reciproca attenzione all’esperienza artistica, che diventa conoscenza di sé, riconoscendo il valore creativo del soggetto, nella considerazione che la poesia è il luogo di appagamento di una tensione liberatrice. Le poesie cercano uno sbocco nella realtà, sono fonte di esistenza piena e di necessario riconoscimento nella relazione con l’altro.

 

Sono qui adesso nel punto esatto/ dove devo essere eppure esco/ da me stesso in un bagliore verticale/ Mostro da scacciare/ angelo da seguire/ l’esserci pesa e sposta il baricentro altrove/ nel crudele oscillare senza apparente ragione.

 

Stare nella voce apre un percorso di trascendenza, una conversazione intima e filosofica con l’infinito e con la fragilità dell’uomo davanti al mistero, fragilità che regala all’uomo e al poeta interamente la sua solitudine e lo scarto dall’appaesamento universale, lasciandolo quindi spaesato e esule.

 

Scrisse Rimbaud : il poeta definirà la quantità di ignoto che si sveglia nell’anima universale del mondo…giunge all’ignoto e anche se sgomento finisce per non comprendere più le sue visioni, anche se le ha completate.

Infatti in ogni sezione del testo è presente questo interrogarsi, questo cercare ciò che manca, questa frammentarietà dell’io che non conosce che la sua quieta inquietudine e che nella scrittura disegna una possibile tregua. Le citazioni intertestuali sono assolutamente dentro questa ricerca, questo ragionamento che si ingabbia nei versi ma che allude alla fatica introspettiva dell’io poetante. Vitali disegna la sua genealogia culturale, inserisce distici preziosi che allargano il significato della sua pagina. Cerca una coralità che ha eccellenza e profondità.  

Nel prologo di Qohelet, summula ateologica del Vuoto, si parla di una teologia dell’indifferenza di Dio. Un mondo sublunare dove l’uomo si affatica per cercare la sua strada. Ma guardare il vuoto è anche atto di coraggio e di resistenza, individua la capacità dell’uomo di affrontare il mistero senza cercare appoggi.

 

Ruota la terra aggrappata al suo asse/ nel moto del fuoco nascosto/ il corpo si muove in ordine sparso/ saremo altro da quello che siamo?/ Sentiremo una voce, la nostra/ indicarci la misura di noi/ pietà per la specie, per i Poeti/ i ribelli, gli amanti traditi.

 

Il testo diventa un continuo monologo drammatico ma non tragico, dove l’io che si interroga sul suo destino incontra il noi e chiede nei versi l’assoluzione per la specie umana, in questa angoscia corale che non consola ma che amplia lo sguardo sul mondo.

La terra desolata è abitata da anime che profetizzano l’assenza di senso, un tentativo fallimentare di trovare la propria collocazione nel mondo.

 E qui la lezione poetica e filosofica di Eliot apre la strada ad altri ragionamenti, ad altri frammenti lirici.

Il forte simbolismo esprime disillusione e frustrazione. Il linguaggio colloquiale utilizza i distici dei poeti citati come fonte di ispirazione e di confronto. Il passato e la volgarità della civiltà moderna diventano lo sfondo su cui si staglia la voce solitaria del poeta. Eliot viene più volte richiamato dall’autore e la sua terra devastata diventa territorio spettrale e arido, dove la ricerca spirituale trova il suo limite nella triste consapevolezza della fine. Il contrasto tra essere e non essere, tra metafisico e quotidiano, tra intellettuale e scontato, è ripreso come elemento fondativo di ogni pagina.

 

Saremo nominati/ per quello che non siamo. Dispersi/ sulla terra devastata del non detto/ Intanto tra le pagine dei corpi/ parla un demone. Ha la mia voce?/ Si perde l’eco tra pozzi inariditi/ senza null’altro da dire.

 

Diventa ancora più chiara l’intenzionalità epigrammatica dell’autore nel piccolo requiem dedicato alla morte del padre. Ogni frammento ha una sua cornice speculativa che oscilla tra il triste compianto per la perdita affettiva subita e la necessità di una voce plurale che si interroga sul destino di tutti. La trama autobiografica, struggente e sofferta, si intreccia con i toni di una meditazione esistenziale profonda. Importante la doppia citazione di Mark Strand, altro riferimento poetico di Vitale, efficace nella sua poesia narrativa e nel suo rifuggire da ogni obscurisme.

 

Tutto cambierà quando i morti/ saranno svaniti nel taglio del pane/ appena sfornato/Poi di tanto intanto, potranno tornare/ a farci un saluto tra le foglie/ del basilico da trapiantare….Abbiamo abbandonato/ pensieri ammaccati/ e desideri ammutinati/al comando imperioso/ del dolore non cediamo/ e liberiamo le parole/ dal supplizio dell’esistenza/ avvolti in una sciarpa di seta./ La forza della morte cancella ogni falsa partenza/ annienta la rabbia per gli errori del calcolo/ restituendoci intatta l’essenza della nostra presenza. / Noi restiamo uguali a noi stessi nella cosmica utopia/ arrampicati al cielo migriamo altrove/ nell’immobilità del tempo/ per essere l’esatto cristallo della ripetizione infinita/di noi in noi.

 

Maria Zambrano, filosofa acutissima del Novecento diede alto risalto alla meditazione poetica, con la sua metafisica sperimentale. La filosofa considera l’essere umano creatura che patisce una vita che non ha scelto, soggetto/oggetto di un movimento verso l’essere, un movimento di trascendenza, con cui sperimenta un percorso teso all’essere, creatura non del tutto nata, incompiuta. Prova per tentativi non senza frutto a cercare il suo posto nel mondo, trasformando l’esperienza del tempo, dei tempi, del soggetto, dell’altro, del linguaggio, dell’essere in rapporto alla vita.

Si resta sempre altrove di Stefano Vitale può essere considerato un esercizio filosofico/metapoetico, che apre altre piste da approfondire con studio e sensibile impegno.  

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