Silenzio è l'impossibile
Elio Scarciglia, Le due sorelle- Torre dell'Orso - Lecce

Silenzio è l'impossibile

diAndrea Fantini

Il 25 luglio 1967, il giorno seguente a una sua lettura all’università di Friburgo, Paul Celan incontra Martin Heidegger nella Hutte di Todtnauberg, dove il filosofo vive e lavora. Da una parte il poeta sopravvissuto ai campi di lavoro, e dall’altra il filosofo che mai aveva espresso una parola di condanna verso quelle persecuzioni, celandosi nell’ambiguità. Il poeta Celan stimava il filosofo Heidegger e viceversa. L’oscurità del loro lavoro era un filo sottile che li univa, il poeta e il filosofo. I due si incontreranno, quel giorno di luglio, e faranno una passeggiata insieme. Non si diranno niente di importante. Non affronteranno nessun argomento vivo. Non toccheranno nessun nervo scoperto. Di tutto resterà il silenzio e l’attesa. Nel libro degli ospiti Celan scrisse: «Nella Huttenbuch, con lo sguardo rivolto alla stella della fonte, con una speranza di una parola a venire, una parola a venire nel cuore.»

 Più tardi, il 19 Aprile del 1970, Celan si toglierà la vita gettandosi nella Senna. Quella che segue è soltanto un’interpretazione di questi due fatti.

19 aprile 1970

  

Il poeta, di notte, affacciato sul ponte Mirabeau. Cosa andava cercando tra i flutti, nell’abisso di un fiume vivo che ribolliva e si agitava, quasi ansimando?

 

Sous le pont Mirabeau coule la Seine


Et nos amours

Faut-il qu’il m’en souvienne

La joie venait toujours après la peine…

 

nella mente deve essere affiorata quella poesia di Apollinaire. Perché anche quando è leggera la poesia resta dolorosa, essa racconta l’essenza fragile delle cose. E l’uomo deve essere stato molto pallido e molto fragile al cospetto della luna e del cielo. Poggiato coi gomiti al parapetto, un po’ curvo su quel precipizio, che a poca distanza l’acqua incombeva. Gli occhi scuri, la fronte ampia e il viso pallido come di maschera.

E i suoi pensieri come piombo dentro le tasche. Come sassi legati alle caviglie. I pensieri a oltrepassare l’orizzonte. A squarciare tutto prima che gli occhi precipitassero dentro quell’oscurità. Quegli occhi erano già vinti, nel moto doloroso del fiume, così vivo. Di tutte le parole, quelle che non abbiamo detto, restano come relitti ancorati in fondo alle nostre vite. Quelle che avremmo voluto ascoltare hanno invece voci di sirene. È un pianto lontano e inconsolabile quello. Un pianto e un canto che precedono e iscrivono sulla pietra l’epitaffio che dirà di noi e di questo nostro passaggio. E noi abbiamo risposto a quelle istanze? Chiede l’uomo a sé stesso, ponendo idealmente la stessa domanda al professore, che nei ricordi lo guarda e non dice niente. Abbiamo risposto a quelle necessità? Fragen (Domandare) Sauchen (Cercare) Untersauchen (Ricercare).

Lui, il professore H., non risponde mai. Cammina di fianco come aveva fatto nella foresta, le mani dietro la schiena, offrendo il suo sguardo rapace alle cose davanti a sé, senza mai fare cenno a quello che gli stava dietro. Tutto oltrepassava, il professore. Sopravanzava ogni sterpo intrecciato. Aiutandosi col bastone allargava il passaggio attraverso la foresta. Quale possibilità, pensa l’uomo, ci verrà offerta in futuro, per divenire soltanto quello che progettiamo. Non quello che ci è capitato prima. Non la tragicità degli avvenimenti. Non siamo generati a quel modo. Avere coscienza che la vita, tutta intera, è una serie di nuvole passeggere, senza materia. Siamo così, gettati nel mondo. Progetti gettati, vero? Professor Heidegger?  

Ma quella condizione umana che è un principio e basta, il poeta la trascina dietro le spalle con grande fatica. Si ammala di notte. Dorme di giorno. Tradito da amanti annoiate. Spinto al suicidio da quell’eccesso di vita che la vita consuma. Ferito da tutte le ore. Fatto con materia fragile, troppo fragile. Si potrebbe parlare di questo. Di certo gli intendimenti saranno sempre diversi. Ma ci sarebbero parole. Quelle parole così necessarie. Eppure, avrà pensato l’uomo, i carnefici restano carnefici e le vittime restano vittime. Tutto sembra mutare tranne quello. E dunque, dove si trova la spiegazione di una scusa. E dove il perdono? Forse lì, nelle parole?

Il professore H., nei suoi ricordi, era un uomo piccolo, dall’aria innocua. Sembrava un vecchio uccello notturno appollaiato su un albero. Gli occhi magnetici e guizzanti, il mento sfuggente, la statura modesta. Quando si incontrarono egli non offrì mai la fissità di uno sguardo al poeta. Solo di tanto in tanto quelle lame scivolarono in avanti. Spalla a spalla, senza raccontare null’altro che le fattezze biologiche proprie della flora e della fauna, aveva camminato quieto. La foresta sembrava un luogo giusto e quei due “Esserci”, nell’immutabilità apparente dei passi. Essi percorrevano un sentiero che sembrava non condurre da nessuna parte. Eppure, l’uomo avvertiva il pericolo di una paura che l’accompagnava ovunque. La gentilezza che scricchiolava sotto i piedi, a ogni passo, gli faceva sempre più male.  Di lato alla sua spalla il professore camminava con andatura calma, teneva in tasca i suoi trenta denari e la nebbia gli lambiva i polpacci. La sera prima, durante la lettura, gli era parso disattento. Si era quasi offeso perché il professore Heidegger sembrava avere altro in mente. Il poeta aveva fatto finta di non curarsene ma non aveva gradito quella sua assenza.

C’era un terreno paludoso, più avanti, e il poeta volle andare lì. Indicò quel posto e il professore lo assecondò, con estrema gentilezza, facendogli segno di guidarlo.

C’è chi ha bisogno di perdonare e chi non ha da essere perdonato. Ma cos’è il perdono deve essersi domandato il poeta. A chi serve veramente? A chi lo domanda o a chi lo elargisce? E se nessuno sta lì a domandare il perdono, forse solo un Cristo qualsiasi, spogliato e morente su una croce, sarebbe capace di elargire quel non richiesto perdono. Solo un uomo parimenti ridicolo che deve scontare tutta la sua pena. Solo una vittima. Una generica vittima che non smette mai di morire. Uno che non comprende quanto quel perdono sia ingiustificato se la colpa è una lama tanto sottile e nessuna richiesta è stata mai fatta.  L’uomo sul ponte pensa che quella sera Parigi è molto silenziosa. L’aria fresca gli passa come attraverso. Un certo calore gli ammanta il viso.

Tandis que sous

Le pont de nos bras passe

Des éternels regards l’onde si lasse

Vienne la nuit sonne l’heure

Les jours s’en vont je demeure”

 La sua memoria decise di ricordare altre cose, quelle poco importanti. A volte è così che funziona la memoria. La baita era una casupola con una parte del tetto poggiata sul terreno. Le finestre erano di colore verde. Vicino c’era una fontana dalla quale usciva acqua che sembrava fredda e pura.

La legna stipata nella rimessa adiacente alla baita svelava forme geometriche nelle differenze di forma, colore e sistemazione. Un poco di vento, un poco di sole, un’ascia appoggiata di lato, vicino a una stella appuntita, la cantilena spossata del vento. E prima dei dolorosi passi scricchiolanti di fuori, all’interno della baita spoglia, il tavolo, con un grosso libro aperto. Pochissimi volumi erano stipati su una mensola e, gentile, arrivò la richiesta di una firma su quel libro degli ospiti. L’esitazione e il pallore dell’uomo che fissava sé stesso che immobile fissava quel libro, era la brutta fotografia di un momento cruciale. Il professore aspettava. La mano dell’uomo tremava e gli occhi gli bruciavano. Il professore aspettava e nessuno diceva niente. Le parole nei libri tacevano. Gli animali di fuori, tacevano. Gli spettri e i fantasmi dell’olocausto tacevano. Mia madre e mio padre, tacevano, pensò il poeta intriso di umanità e di vergogna. E tutti sembravano guardare quella mano tremante appena prima che vergasse il foglio. Si chiese perché lo avesse fatto. Si chiese chi lo aveva fatto prima di lui. Sentì il giudizio aprirsi come una brutta ferita. Il professore invece, aveva quella sua espressione comune. Non colse affatto quel fremito in lui. Era un luogo concreto, il professor H. Un posto di pietre antiche. Tutto in lui era tempo e natura. Era un uccello di pietra con in mano un bastone. Era un posto lontano, da contemplare. Le sue parole le poteva ascoltare, scivolanti di significati e significanti. Le parole scritte sui libri che aveva divorato e digerito. Quelle parole furono luci potenti nell’oscurità del Novecento e Il nuovo vocabolario era stato appositamente inventato per ospitare alcune domande dentro le quali arrovellarsi per duecento anni a seguire ma, “Je ne demeure plus…”, pensò il poeta.

E di nuovo la sostanza sconosciuta, arrivati alla vista di quella palude, di fronte ai processi naturali e al cielo plumbeo. Quella sostanza che era un misto di nebbia e fango e sterpi immobili. Tutti e due stettero fermi e contemplarono un’assenza. Lo sconcerto non era assimilabile alla semplicità dell’imbarazzo di essere finalmente arrivati come spettri in quella solitudine di sconosciuti. Loro sapevano. Uno sapeva dell’altro gli anfratti dell’anima. Uno conosceva dell’altro la parte più alta dello spirito. Era qualcos’altro a palesarsi in quello stallo: L’assenza. Era manifesta e dialogava come terzo attore in scena. Era muta, mancante, come la tragedia greca è mancante della musica che l’accompagnava. Ci fosse stato Dio avrebbe messo in mezzo ai due il sospiro di un sacrificio, come un frammento di eucarestia gettato per regolare tutti i conti. Ma Dio era qualcosa di trascurabile. Era un regista troppo prevedibile per ingannare quelle intelligenze. L’assenza era la distanza tra l’enorme possibilità di trovarsi uomini e quell’oblio concreto di liquami nel terreno scivoloso e instabile. Era Il pendolo che oscillava tra il nulla e la redenzione. Ma chi avrebbe domandato e chi avrebbe trovato le parole adatte per mettere a posto le cose?

Il poeta si era come sorpreso al cospetto di quella ferita aperta inferta dalla sua stessa mano, colpevole di aver firmato quel libro. Aveva posto il sigillo a un sostanziale riconoscimento, una richiesta di perdono lasciata come una traccia umana su quel libro di fantasmi. Aveva detto di essere esistito in quella casa e aveva chiesto un segno. E quel riconoscimento implicito, quella speranza di una parola a venire, era adesso qualcosa di abominevole. Si sentì solo e ancora una volta vittima. Quello che entrambi compresero fu che l’assenza si era dimostrata ineludibile. Il tempo era ancora costante. I battiti del cuore irrigavano le vene di sangue vivo. La memoria umana era divisa a metà nell’inconciliabile, e il linguaggio era insufficiente per estendersi e unire i due poli.  

“Vienne la nuit sonne l’heure

Les jours s’en vont je demeure…”

 

Parigi, come una tomba troppo lussuosa. I bambini nei loro letti sognano a occhi aperti. Le madri davanti al fuoco hanno da sperare. I padri si vanno a coricare prima di cominciare domani e io vado morendo. Nessuna bella preghiera per una notte di rassegnato sforzo, rifletté il poeta. Pensò alla morte e la morte lo pensò. La sua morte era già lì da qualche ora, solo che si era nascosta. Forse era sempre stata lì. Non “una morte”, “La mia!”, pensò. Sussurrò “Io muoio” e non “Si muore!”. Questo è quanto. Si sporse e vide la materia oscura venirgli incontro. Mentre cadeva fu colto da una luce meravigliosa e crudele. Era il perdono. Il perdono aveva riempito il vuoto dell’assenza. E perché mai avrei dovuto saperlo prima? La casa di stanze e cassetti che era la vita svanì nel nulla, restò  leggera la bellezza della perdita. Solo allora, in quel posto dove non esistevano più parole e significati. Lì, nell’iridescenza del cosmo, a cavallo di spettri di costellazioni, tutto raggiunse la giusta consistenza. Tutta quella matassa fu come districata nel tempo di un respiro e quel perdono non ebbe voce ma fu di luce. I significati erano ricordi sbiaditi di quella casa di stanze e cassetti. La solitudine fu leggera e nessun peccato esisteva più. C’era solo pace e il tempo infinito.


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