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Foto di Carlo Serafini

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diPatrizia Birtoli

Una mannaia calata al rallentatore, ecco cos’era la stramaledetta App installata sul pc. Sullo schermo scivolavano via secondi, minuti, giorni mancanti alla fatidica ora X, come nei siti che pubblicizzano la solita offerta irripetibile. Funziona solo per le cose belle, pensava Ugo ingoiando rigurgiti d’indispettita malinconia.

Il suo problema era questo: cresciuto con le orecchie a bagno nel mantra Bello de Nonna dimme, t’aiuto io, non si era rassegnato alla brusca interruzione del leit motiv.

Ora Nonna, attaccata in pianta stabile a una Macchina, non s’accorgeva neppure se nella camerata entrasse lui, un’infermiera o un orso. Fine dei mantra.

Nonostante tutto andava a trovarla, Nonna era sempre Nonna, anche se intorno a quel povero viso s’attorcigliava un groviglio di tubi e tubicini. Pareva le avessero tirato in faccia un piatto di bucatini di plastica. Le raccontava i suoi guai. Non batteva ciglio, ma Ugo era convinto fosse l’unica a capirlo davvero.

«Mi ascolti almeno?»

Questo invece era il tipico intercalare di Francesca.

Eh, eccome l’ascoltava. Impossibile isolarsi da quel tappeto sonoro, un rumore bianco ineludibile come la danza dei pianeti nell’Universo.

Del resto, facendo l’immane sforzo di mettersi nei suoi panni, e manco gli piaceva come si vestiva la sua tipa, Ugo non poteva biasimarla.

L’ultima volta che gli aveva chiesto «Mi ami?» lui soprappensiero aveva risposto «poi vediamo».

Ne era seguita un’imbarazzante apocalisse che, lungi dal liberarlo, l’aveva impaniato ancor di più.

Questo perché c’erano cose di Francesca che Ugo temeva molto.

Una delle più letali, il “ritorno dall’aperitivo”.

Contraccolpo della seratina fra donne, breve tregua di libertà che Ugo pagava con gli interessi, ecco il boomerang rotante a base di fisime e recrudescenze. Francesca, reduce dall’uscita con le altre, tornava caricata a molla, pronta a sciorinare il repertorio completo: tableau mariage, wedding planner, location.

Ultima perla circa le tendenze in voga tra nubendi, l’idea che i sanitari per risultare chic dovessero essere neri. Neri!

È colpa mia, pensava Ugo.

Invocando divinità a caso del Walhalla aveva sempre chiesto mandami un segno, un segno ti prego. Qualcosa di inconfutabile che mi dica “lasciala per sempre”.

Siccome le ultime otto pause di riflessione non erano bastate, ecco spuntato un cesso nero.

Le cose temibili di Francesca non finivano qui.

Una era enorme e tuonava come Mangiafuoco, gli si parava davanti bella grossa fuori dal portone quando, a dosi omeopatiche, diluiva uscite, diradava telefonate, accampava pretesti per raggiungere, lemme lemme e inosservato, l’uscita da una relazione soffocante come una busta di cellophane calzata a mo’ di passamontagna.

In pratica a ogni avvisaglia di sgattaiolata strategica Francesca schierava in prima linea suo padre.

L’altra cosa che intimoriva Ugo, invece, era piccola piccola. Microscopica addirittura, e per fortuna ancora invisibile.

Ma più passava il tempo più si sarebbe imposta con peso micidiale.

Il macigno per il momento era stato ribattezzato Fagiolino.

Insomma: Mangiafuoco per suocero, Fagiolino magico per progenie e Grimilde come futura moglie.

Non ci si scandalizzi se uno si gioca l’anima per svoltare.

Era iniziato tutto con innocenti grattatine a coloratissimi foglietti dalle caselle argentate.

Presto Ugo s’era trovato tutto il giorno col viso bagnato da cascate di luce fucsia, verde acido e oro. Attaccato a una Macchina, proprio come Nonna.

Nel suo caso anziché erogare ossigeno e fisiologica la Macchina decideva il destino facendo frullare ciliegie, dadi, gettoni. Per espiare aveva scelto le slot machines del Bar Settebello: la denominazione dell’esercizio ricordava con lancinante crudezza che, si fosse provvisto per tempo di un certo prodotto, l’anno seguente festeggiare il 19 marzo sarebbero stati grattacapi altrui.

Frulla oggi frulla domani i soldi erano finiti, il vizio no.

Per appianare il prestito con la banca s’era soavemente affidato ad amici di amici del gestore del Settebello, leggi “cravattari estremi”.

Una sera gli si erano avvicinati due tizi.

Ugo è brevilineo, tarchiato, faccia da minatore del Sulcis, ma confronto a quei due lì sembrava un nobile.

Bastò un rapido, amichevole scambio di vedute sull’ineluttabile scorrere del tempo condito da un vibrante memento circa la caducità delle cose umane. Ne uscì conciato come Rocky all’ultimo round.

Di lì a poco l’idea della App.

L’ultimatum l’aveva avuto, ora toccava spremersi le meningi.

Nonostante le maratone di orazioni per ingraziarsi il favore di tutto il Walhalla, in testa c’era solo il vuoto cosmico.

Fagiolino aveva vinto: non restava che implorare gli aguzzini del gruppo uno, Francy&Co., di proteggerlo dagli aguzzini del gruppo due, la Cravattari S.r.L.

Fissata la data della riunione di famiglia con un segno rosso sul calendario, un segno a forma di cappio, avrebbe spiattellato tutto a Mangiafuoco e Grimilde.

Invece, l’Angelo della Morte svolazzò in suo soccorso, Nonna i guai li aveva ascoltati davvero. Lo cavò d’impiccio passando a miglior vita. Nonna Elvira Gran Cavaliere Jedi della tesaurizzazione domestica, chi l’avrebbe detto? Era libero!

Poteva appianare i debiti, per esempio. Tappare la bocca per sempre ai creditori, prima dell’indesiderabile viceversa.

Oppure, buttare nel cesso (nero) i sudati risparmi di Nonna in un’orgia orrenda di tulle, confetti, mobili, fuochi artificiali, tableau mariage, tutine firmate per Fagiolino. La quota avrebbe assicurato anche una copertura decennale da famiglia disfunzionale, garantito.

Oppure… arraffare trentamila euro e via dritto filato all’agenzia “Espatrio felice”. Nessuna domanda, un’identità nuova, taglio netto col passato. Salpare verso lidi esotici che chiunque faticherebbe a rintracciare anche solo sulla carta geografica.

Sì, dai. Meglio così.


Lo schermo del pc brilla amichevole mentre scorre il conto alla rovescia, ma Ugo ha cambiato data nella App.

Per le cose belle funziona, pensa tirando un sospirone d’indicibile sollievo.

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