Tenebrezza, l'erudita
Elio Scarciglia, processione venerdì santo, Taranto

Tenebrezza, l'erudita

diLetizia Leone

L’ultima raccolta poetica di Davide Cortese è inscritta dentro l’espressionismo aurale e fiabesco che ben conosciamo quale cifra stilistica del poeta, sebbene qui l’espressione di un sofferto stare nel mondo sia ombra fortemente contrastata sullo sfondo di una solarità arcaica e perenne. 

Una sorta di compendio esistenziale che prende avvio dall’immagine netta e imprescindibile dell’ostensione pubblica del cuore, immagine totale di un ‘io’ lirico posto a giudizio.  Un giudizio morale e poetico allo stesso tempo. Non erano forse il cuore e la piuma i termini della mitica pesatura dell’anima presso gli antichi egizi tesa a valutare l’autenticità del percorso di un’anima alla soglia dell’oltretomba? 

Respiro / e le mie narici sono i piatti della bilancia /dove in ogni istante si pesano il mio cuore e la piuma. Io respiro / e non c’è niente che mi scagioni /dall’accusa di essere vivo.

Nel testo incipitario è già posta la base di un cammino di consapevolezza iniziatica e dolorosa dell’io, puer aeternus radicato nelle immagini del cuore (antica sede dell’immaginazione) e della ‘piuma-leggerezza’ (termini analogici della Poesia, del suo ritmo o delle sue qualità alate) fissati alla terrestre complessità dell’esistenza, quell’ «esser-gettati-nel mondo» che risuona come accusa, errore originario che chiede discolpa.  Ci sovvengono le parole di Hillman, che a sua volta cita Corbin: «la figura del Puer aeternus è la visione della nostra natura prima, la nostra primordiale Ombra d’oro, la nostra affinità con la bellezza, la nostra essenza angelica come messaggera del divino. Come messaggio divino». Il cammino orizzontale del Poeta-Puer verso la dimensione del Senex, nel rimpianto malinconico, è costellata di segni ed emblemi, cifre simboliche potenti che ci irretiscono luminose da un paradiso perduto. 

Qui, dove agiscono a livello mitopoietico, le metafore radicali dell’esperienza umana si cerca di riassestare la propria storia individuale dentro una «mitologia della psiche» dove le contingenze e gli eventi vengono polarizzati all’interno della Storia: «a creare la Storia è questo nucleo di anima che intesse insieme gli eventi nelle trame ricche di significato di favole e storie raccontate per mezzo della memoria.»  E la poesia di Davide Cortese è poesia rammemorante che affonda nel suolo di ‘un’isola che non c’è’, un regno della profondità inconscia fatto di luce pura, giardino divino dai frutti che ancora conservano qualità sacre. Un sottofondo ‘poietico’ ineludibile, là dove la maschera d’oro del fanciullo divino rischia di essere pietrificata dalle vicende umane e terrene: la funebre maschera d’oro di un faraone adolescente. Se il contatto con l’amore e la vita si rivela in primis perdita di innocenza, allora fosforeggia il regno inviolato e imponderabile dell’infanzia quale miraggio:

L’infanzia ritaglia 

santità bambine. 

Incolla aureole. 

Colla di mandorle...


La costellazione delle isotopie che tramano la raccolta ruota intorno all’immaginario dell’infanzia e insieme all’archetipo del puer alato, portatore di doni, e ci guida attraverso una sorta di mappa letteraria: Lucignolo, Cosimo Piovasco di Rondò, l’antica marionetta, angeli e demoni, il clown e l’arlecchino. Ma soprattutto seguiamo la spia sottotraccia, mistificata nel discorso poetico ma presente e potente, del Cuore Sacro, esplicitato nel suo oscuro splendore nella parte centrale della raccolta. L’iconografia del cuore fiammeggiante, ex voto, emblema e feticcio sacrificale, viene portato in processione in una Sicilia barocca devota a liturgie luttuose e carnevalesche. Ma qui l’oggetto cuore, simulacro di gesso e smalto, è desublimato a gadget decorativo di festa paesana, depauperato del suo portato di verità e autenticità:

In un remoto paese sfila in processione 

il simulacro in gesso e smalto di un mio cuore 

portato a spalla da bambini seri in volto 

che tacciono in dialetto uno scandalo sacro. 

Eccolo, l’arcano cuore di fico d’India 

nel trionfo di luminarie, barocco e fanfare. 

Lo additano mani sdrucite di vecchi 

e belle vedove vestite a lutto. 

Giovani madri gli lanciano baci 

e volte ai figli in braccio sorridono 

“mànnacci na vasàta puru tu”. 

Ed io sono verde di spine 

spogliato di tutte le mie ombre 

da una spietata luce sicilia


Siamo di nuovo di fronte all’ostensione pubblica delle colpe. I termini dell’inquietudine, come ben evidenziato nella prefazione di Anna Maria Curci, trovano pacificazione nella poesia: «...in compagnia degli “universali”, amore, morte, paura, notte, natura, l’io sceglie, ancora, l’incontro con il “fuori da sé” e con gli umani lungo il cammino comune, nell’esistenza, con uno sguardo che si muove tra i poli opposti, tra riflessione e relazione, tra immanente e trascendente. »

Si potrebbe anche leggere questo libro nella dimensione esoterica della fiaba iniziatica, convinti con Hillman che i «decisivi bagni lustrali dell’anima, sono anche atti di rigenerazione della storia». Distrutta per sempre la pienezza dell’incantamento (prerogativa poetica dell’infanzia del mondo) in tempi di totale disincanto nichilista, pare quasi di intravedere il fanciullo-emblema di Penna, quale monito sullo sfondo. L’acrobata adolescente è qui incisivamente, un faraone adolescente pienamente incarnato nei versi. Quasi a ribadire all’uomo di tornare ad abitare poeticamente questa terra. 


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