Un film necessario: Jonathan Glazer, La zona d'interesse

Un film necessario: Jonathan Glazer, La zona d'interesse

diAlessandra Gasparini

Mi è indispensabile parlare di questo film, che posso annoverare tra i capolavori cinematografici degli ultimi anni, per la originalità e l’incisività che ne caratterizzano la regia, la fotografia,  il montaggio, la sceneggiatura, l’interpretazione, la musica, gli effetti sonori . Il Gran Premio della giuria a Cannes 2023 e l’Oscar come miglior film straniero sono pienamente meritati, indipendentemente dal valore , per me non troppo significativo, che un premio hollywoodiano può rappresentare. In questo film c’è sicuramente qualcosa in più rispetto all’importanza dei premi ricevuti. Rispetto anche ai tanti film necessari a cui abbiamo assistito nel corso del 2023 e inizio del 2024. Non perché sia il più bello ( potrebbe esserlo, ma sarebbe come negare valore ai  meravigliosi film di Scorsese, Lanthimos, Hamaguchi, Garrone …) ma perché parla della cosa più importante, quella che ci incolla da subito alla sedia e ci fa provare grave malessere dall’inizio alla fine della proiezione. A una decina di minuti dall’inizio, infatti, solo chi non voglia vedere ad ogni costo ( imitando i protagonisti del film) può non comprendere che ciò che viene magistralmente rappresentato sullo schermo non è altro che la nostra comune, diffusa, borghese, individualistica INDIFFERENZA per le sorti degli altri esseri umani. Quelli, intendo, che non fanno parte della cerchia, stretta o ampia, delle nostre relazioni quotidiane.  Se l’orrore è fuori dal cancello, al di là del muro, si può far finta che sia naturale, che ci sia sempre stato,  che abbia un’ottima giustificazione, che non sia necessario andare ad indagare, tanto meno fare qualcosa, ancora  meno ribellarsi. Per parlare di questo film, così ‘diverso’, posso procedere per blocchi di immagini e sequenze. Il regista stesso ha voluto girarlo lontano dal set dove gli attori agivano con molta libertà, per non condizionarli e fare uscire dalle loro scelte recitative  delle possibili verità. Componendo poi l’opera in fase di montaggio.

Rudolf e Hedwig

Il comandante in capo delle SS che gestivano il campo di Auschwitz in Polonia, Rudolf Höss ( un bravissimo Christian Friedel ) abita  di fianco al campo stesso. Lui va al lavoro allo stesso modo di un dirigente d’azienda o amministrativo. Ogni giorno entra fiero e determinato nel campo/azienda, in cui condurrà nel migliore dei modi i  propri affari. Gli basta uscire dal cancello per entrare all’inferno. Con lui vivono la moglie Hedwig ( interpretata superbamente da Sandra Hüller, candidata all’Oscar per “Anatomie d’une chute” ) , e i cinque figli ancora bambini , due maschi, due femmine e un neonato. Si aggiungono a loro le inservienti, due delle quali, magrissime e taciturne, dichiarano nell’aspetto la loro provenienza dal campo,  il  cui muro di confine si vede dalle finestre e dal giardino.  Così i camini dei  forni crematori, da cui esce incessantemente un nero fumo, presenza inquietante, ma  quasi mai dichiarata, come fosse invisibile. Gli odori che promanano da quell’inferno devono essere nauseanti. Come nauseante dovrebbe risultare il sottofondo di grida, ordini, lamenti, stridore di colpi, accensioni roboanti di macchinari, suppliche, rumori indefiniti e strazianti, che non cessano mai, di giorno come di notte. Un sottofondo costante, che accompagna le azioni quotidiane di questa apparentemente normale famiglia borghese.

Hedwig si dedica al giardino, davvero rigoglioso, ci coltiva di tutto, i fiori sono di tanti bellissimi colori. Quando il marito è a casa assieme ai figli si fanno belle gite sul fiume. Si può fare anche il  bagno. La madre tiene dolcemente il suo piccolo tra le braccia. È affettuosa, persino dolce. Come dolce è Rudolf quando legge le fiabe alla figlia per farla addormentare. 

Ma …

La casa, il cane nero

I corridoi della casa, con stanze ben arredate e luminose,  che la madre di Hedwig, venuta in visita per un periodo che si prevede lungo, solo inizialmente trova calde e accoglienti, sono stretti e bui. Preludono a quelli, ancora più cupi e opprimenti, da cui la casa dista poche decine di metri. Il cane nero degli Höss li attraversa agitato,  simile a un’anima nera che ‘grugnisce’, che abbaia, che respira i fumi  neri dei forni, i cui camini si stagliano all’orizzonte ogni volta che ci si affaccia alla finestra. Anche le scale sono illuminate da una luce fredda, soffocante, percorse dagli abitanti della casa, che diventano ombre sgraziate. Percorse da Hedwig, ciondolante, priva di classe, una serva diventata padrona.

Gli uomini d’affari

All’illusione di amenità delle gite sul fiume subentra molto presto nello spettatore la consapevolezza che quell’acqua è lurida come l’anima di chi  vi si era immerso. La corrente trasporta ossa non decomposte e cenere di corpi bruciati. Nel frattempo i gerarchi nazisti e gli ingegneri del regime discutono a tavolino, entusiasti, il nuovo modello di forno crematorio ad anello, più efficiente e funzionale rispetto ai precedenti. Servirà per fare sparire prima possibile i 700.000 ebrei che arriveranno dall’Ungheria. Una pianificazione lodevole, in cui il comandante in capo Höss potrà distinguersi, proprio a lui verrà affidata l’organizzazione del completamento della soluzione finale.

Il giardino

Alle fioritura rigogliosa del giardino succede il vuoto aspro dell’inverno. Quel muro, quei camini, quel fumo si stagliano sempre più inquietanti alla vista. Finchè si era in molti a parlare, si poteva fingere di non udire. Ma quando Rudolf, obbedendo agli ordini, si allontana da casa per un lungo periodo e la madre di Hedwig, che a differenza degli altri inizia a vedere e sentire, se ne va senza preavviso, allora resta un silenzio senza vita,una solitudine vuota di tutto. Il giardino inaridisce, la speranza individualistica di benessere e felicità sfuma. Il giardino ghiacciato è una tomba, dove presenze di zombi con l’aspetto, ancora per poco, di umani, si muovono, senza più un copione a cui affidarsi. L’unico gioco che resta ai bambini da poter fare è imprigionare, rinchiudere, fare valere la propria superiore forza. Come il fratello grande fa con il piccolo.

I fiori

I fiori del giardino , in primissimo piano , si tingono d’inquietudine, di un rosso sempre più intenso. Il nero e il rosso, a turno, invadono lo schermo, all’inizio, durante il film, alla fine. Ci dicono: “Non puoi uscire di qui se prima non hai pensato, non hai capito, che quell’orrore, che si ripete più che mai oggi, adesso, ora, in questo preciso istante, con molteplici forme, TI RIGUARDA.

La colonna sonora

La straordinaria colonna sonora di Mica Levi, assieme agli effetti sonori per cui il film è stato premiato con l’Oscar, crea un effetto straniante, che richiama l’estraniarsi dall’umana empatia, per entrare nella dimensione dell’ottenebramento della ragione e dello spirito.

Il regista

Jonathan Glazer ( Under the skin ), britannico di origine ebraica, riceve il premio Oscar per il miglior film straniero, con questa straordinaria trasposizione di un romanzo  di  Martin Amis. È contento , non potrebbe non esserlo, ma rimanendo serio dichiara : “ Il film  che ho realizzato vuole parlare del presente. Non volevo dire – Guarda come hanno fatto allora – ma piuttosto – Guarda che cosa facciamo adesso . Le vittime di oggi sono risultato di un processo di disumanizzazione che è andato avanti- .   Fa un esplicito riferimento alla situazione di Gaza.  Lo hanno accusato per questo di rinnegare la sua ebraicità. Accusa infondata e priva di senso. Quello che rifiuta è che l’argomento Olocausto venga strumentalizzato per difendere oggi l’operato di Israele in Palestina. Il messaggio del film è : COME POSSIAMO FARE FINTA DI NIENTE ? Glazer dedica la sua ultima opera ad una signora polacca, Alexandria.

Alexandria

Lei è una  donna polacca, novantenne, che il regista ha conosciuto mentre girava il film. All’epoca  dell’Olocausto era ragazzina e portava durante la notte cibo  ai prigionieri, rischiando la vita. Mentre il tenero padre Rudolf sta leggendo alle figlie una fiaba per tranquillizzarle e farle addormentare, ecco che un’altra fiaba, questa volta reale, prende forma: la scena a colori lascia posto a un buio dove una luce brillante come una stella fa risaltare il gesto di una giovane donna che estrae da un sacco magici oggetti fosforescenti e li depone in punti precisi di un terreno a ridosso del campo di concentramento. La vera fiaba , raccontata dal regista, è questa, che narra per immagini la magia dell’amore, che contraddice l’odio e l’indifferenza, che ci porta ad offrire, a rischiare, a metterci in gioco per salvare. Alexandria inforca la bicicletta e il colore ritorna. Una volta giunta a casa, suona al pianoforte uno spartito che ha trovato nei campi. Questo porta la firma di Joseph Wulf, uno storico ebreo che sopravvisse ad Auschwitz. Scriveva musica dal campo n.3 di questa città degli orrori.

La pregnanza di queste e di molte altre immagini, che il regista ha saputo creare, è assoluta. Anche il montaggio avrebbe decisamente meritato l’ Oscar.

Verso la fine il protagonista scende le scale per accingersi a compiere ciò di cui è stato incaricato. Si ferma per un attimo e vomita. Percepisco questo atto come una metafora  della nostra coscienza, della mia, che vorrebbe vomitare la disumana indifferenza di cui noi, umani, possiamo essere capaci.



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