Un po' felice
Giuseppe Letizia, Moon, pietra leccese

Un po' felice

diAlessandra Gasparini

Dura, eh sì, dura essere vivi. Lo pensavo a quattordici anni e lo penso ora, che ne ho ventitre. Pochi, molti. Non saprei, lascio giudicare a voi. Più che altro, non m’importa. Quando è stato che la vita mi è sembrata simpatica? Questo è facile. Un anno e mezzo fa, era maggio. Uscivo da un periodo che mia madre definiva di “depressione e astenia”. In parole povere ero disinteressata a qualunque cosa che non fossero torte da preparare e ingurgitare e anime da scomporre e ricostruire. Non parlo di quelle anime che qualcuno dice abitino dentro di noi, spesso, aggiungo io, senza dare segno di vita.   Parlo di figure animate giapponesi. Le adoro, sin dalla mia difficile adolescenza, diciamo. A circa quattordici anni ho iniziato a constatare che la vita di uno studente, specie se problematico, è condannata ad essere isolata, monotona e soprattutto ansiogena. Il concetto mi era chiaro, bello nitido, sin dai sei anni circa (prima elementare) e successivamente lo ho rielaborato secondo varie modalità, che qualche assistente sociale, psicologa o prof di sostegno considerava, non so se uso il termine giusto, “patologiche”. Beh, in ogni caso da allora sono consapevole di amare i manga, di volerli smontare e rimontare, facendoli parlare di due argomenti: 1) AMORE; 2) MORTE. Con grande soddisfazione personale. A volte più AMORE, altre più MORTE. Improvvisa, magari anche violenta, inaspettata, sempre salvifica. In alcuni casi AMORE salva da MORTE, in altri il contrario.

Finché.

Nel maggio 2021 i miei occhi castani, riservati e predisposti alla miopia, proprio a primavera, con i germogli tardivi ancora chiusi e il sole incerto e tiepido, con il parco e il laghetto davanti e la mia vita precedente, tutta completamente inutile, alle spalle, i miei occhi castani, dicevo, sono rimasti sospesi, con espressione che immagino imbambolata e ancora inconsapevole, nella direzione dei suoi. Azzurri, innocenti, pieni di cose. Si può forse dire “palpitanti”. Giuro, l’AMORE lo leggevo nei manga, ma di persona non ne avevo proprio idea. Occhi palpitanti di mondo, li definirei, e di parole ascoltate e dette in radio, dove lei curava una rubrica, di messaggi whattsappati senza avere mai visto il destinatario (io) ma osservandone le reazioni, condividendone emozioni, riconoscendole assieme. Nella sua inquietudine, c’era già dentro la mia, proprio la stessa.

Io, Adriana, ventuno anni all’epoca, tette grosse, culo anche (cosa me ne fregava di essere sovrappeso). I capelli li avevo e li ho lunghi e sottili, tanti, mia madre a volte me li pettinava per poi dirmi che erano belli, non c’era bisogno di districarli.

Per il resto.

Io ero particolare, “difficile”. Così si diceva. Senza pillole non potevo vivere. Ricordo che vagavo spesso per i corridoi della scuola in preda al panico, per non sapere COME SI DEVE FARE, come cavolo si fa, COSA si deve, e COSA non si deve, eccetera. Ero quella “Non farci caso, è fuori di testa!” (le femmine della mia classe, 3°A, A come “Affacciati, che ti schiaffeggio”, oppure “Allontanati di qualche passo che sparlo di te, ma te lo faccio sentire, ingoiare ”. Poco prima si erano rifatte il trucco).

Avevo un’amica, Ada, più grande di me, che mi voleva bene. All’esame di maturità mi ha aiutata. Mi ha spinta dentro la sala dove mi attendevano al varco per la tesina e mi ha detto: “Sai recitare benissimo, interpreta la tua parte, da grande attrice quale sei. Quella dell’alunna brava, intelligente, studiosa, che sa esporre con sicurezza la sua tesina.” Così ho fatto. Sono uscita con 80/100. Non male, penso.

Non ti ho detto che so recitare. Grazie a Ada, che mi ha insegnato. E grazie a me, che ho un mondo dentro. Solo, mi mancano il tempo e lo spazio, il come e il perché tirarlo fuori e costruirci qualcosa. Tagliare e ricucire mi riesce con le anime, ma con me no. Mi chiamavano “autistica” ma poi Ada mi ha detto: “Parla!” e io non smettevo più. Una fiumana di parole, scorrevano lisce e pulite, che liberazione. E mi veniva da ridere. Un po’, e un po’ da piangere. Cosa credete, anche gli Asperger si commuovono. Prima volevo scappare, poi son rimasta, per tanti anni. Ho recitato ovunque. Alla fine dello spettacolo qualcuno sempre si avvicinava, mi stringeva la mano. Una volta, con Ada, abbiamo concluso ballando “Tous les garçons et les filles” di Françoise Hardy e il pubblico ha ballato con noi. Sì, ero un po’ felice, lo ammetto.

Quando sono un po’ felice batto le mani per cinque secondi e credo si veda dall’espressione.  Ero rimasta che guardavo dentro le pupille di Sara e mi sembrava di essere sollevata e trasportata dentro a un cartone di anime. Con tutto il mio dolce peso. Questa volta ero io la protagonista de “La Principessa Splendente” di Isao Takahata, ma mentre la splendida eroina del cartone tornava alla Luna, da cui era venuta, io mi ritrovavo tra le braccia di Sara. Stavolta mi sentivo lo zucchero in bocca, come se la torta l’avessi in un attimo fatta e divorata e mi fossero rimaste fra i denti e sulla lingua le briciole.

“Dici davvero?” le chiedo. “Sì, mi piacerebbe stare con te.”

A mia madre le ha preso un colpo quando sono tornata a casa e dopo poco che ero entrata ho riunito tutti (tutti sarebbero due fratelli, una nonna, un nonno, una madre): “Oggi mi sono fidanzata con una ragazza, si chiama Sara”. I nonni hanno pianto, ma poi tutto bene. La mamma si è ritirata molto presto in camera, come fa quando è depressa. I miei fratelli, boh, non so. Con loro non parlo quasi mai, più che altro litighiamo per il computer. Non li conosco e non capisco cosa pensano. Forse non pensano.

Ad alcuni miei ex compagni di scuola (maschi) Sara sta simpatica. Io la amo, e ho paura che non arriverà mai il giorno in cui avremo da parte abbastanza soldi da poterci sposare. Ogni tanto vado da Ada. Lei mi ha detto: “Sono felice per te. Se stai bene, tutto va bene”. Passiamo davanti a un negozio per i matrimoni e in vetrina c’è sempre un abito bianco, lungo e ampio, ricoperto di perle. Da Principessa Splendente. “È giusto per Sara” mi dico “Sembrerebbe un angelo. Io mi metterò giacca e pantaloni scuri con una camicia bianca, semplice”. Mi va così. Lo dico a Ada, che mi sorride. Chissà se riusciremo mai a vivere una nostra vita. Indipendente.

 Dimenticavo, anche Sara è Asperger come me. Questo complica le cose, per il lavoro, intendo. A dire la verità io non mi sento diversa, ma distratta. Mi concentro solo quando una cosa mi piace, e questo è un problema. So recitare un dramma, dall’inizio alla fine, e capisco al volo il significato di una poesia. Ma nei lavori che mi sarebbero eventualmente consentiti non serve. Bisogna stare concentrati e ripetere azioni per ore, senza fare confusione. Ho provato a cercare qualcosa di diverso. “Le faremo sapere”, mi dicono ai colloqui. “Bene, Adriana, ti faremo sapere”.

Solo con Sara sono un po’ felice. E quando faccio una torta. Quando mangio la torta e Sara è lì, tranquilla, vicino a me. Ci guardiamo ogni tanto negli occhi e immaginiamo come sarà il nostro manga.


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