Un viaggio nelle raccolte di Luciano Erba
Luciano Erba, scomparso poco più di dieci anni or sono, 3 agosto 2010, è da considerarsi uno dei poeti più eminenti della poesia ultracontemporanea, cronologicamente parlando. Nacque a Milano il 18 settembre del 1922. È stato docente universitario di letteratura francese e di Letterature comparate presso l'Università Cattolica di Milano. Poeta tra i più innovativi di quelli della "Linea Lombarda", fece il suo esordio con Linea K nel 1951. A questa raccolta sono seguite Il bel paese (1955), Il prete di Ratanà (1959), Il male minore (1960), Il prato più verde (1977), Il nastro di Moebius (1980), Il cerchio aperto (1983), Il tranviere metafisico (1987), L'ippopotamo (1989), Variar del verde (1993), L'ipotesi circense (1995), Nella terra di mezzo (2000), Si passano le stagioni (2003), Un po' di repubblica (2005) e Remi in barca (2006). Erba era stato allievo di Contini a Friburgo, dov’era fuggito per non aderire alla Repubblica di Salò, poi correttore al “Corriere della Sera” e corrispondente di un’agenzia americana. Era tornato presso la cattolica di Milano da assistente nel 1953, quindi incaricato di letteratura francese e, dopo una parentesi negli Usa, ordinario fino al 1997. Per mezzo secolo è stato professore e nello stesso tempo poeta. Ha saputo far convivere perfettamente queste due anime. Da traduttore prediligeva gli autori francesi e resta un modello la sua versione del capolavoro seicentesco di Cyrano de Bergerac. È considerato uno dei maggiori poeti italiani ed europei del secondo Novecento. Tra i premi vinti, il Cittadella (1960), il Carducci (1977), il Viareggio (1980), il Bagutta (1988), il Librex-Montale (1989) e il premio alla carriera del Festival internazionale di poesia civile di Vercelli (2005).
Studia la matematica! Fu uno dei suoi componimenti più celebri e maggiormente commentati [1].
La villetta era al capo opposto della città
Vi stagnava un afrore di soffitti
Il fermacarte era un bossolo di granata
Andavano infatti a lezione di matematica.
La vestaglia frusciava, un po’ si apriva
Succhiavo assorto una matita faber
Dal sotterraneo udivo il ronzio
Della fresa di un marito ingegnere
Capivo poco e non ricordo altro
Sì, clacson nelle vie sotto cieli di piombo
E l’acne giovanile di un ritornare a zonzo [2].
La poesia si trova all’interno della sezione Il cerchio aperto della silloge L’ippopotamo. Il passaggio chiave nella decodificazione del componimento è scandito da un “infatti”, quasi fuori luogo. Come sottolineato anche da Forni, l’”infatti” al verso 4 va a caratterizzare e connotare tutto il componimento. Il poeta, tornando a ritroso nel tempo, contempla il suo giovane io. L’”infatti” ha un ruolo fondamentale, innalza il livello poetico, evitando di farlo cadere nella mera narrazione personale e personalistica. Esso proietta su ciò che precede il noto. L’esperienza dell’io di Erba diviene esperienza comune. L’”infatti” proietta il componimento da un microcosmo personalistico ad un macrocosmo universalistico, si passa improvvisamente dal particolare all’universale. Tale fenomeno, studiato da Forni, è detto della “pseudo-verità”. Con l’”infatti” se si va a lezioni di matematica, questa diviene scena obbligata, comune a tutti, quasi un assioma. Questa però è una presunta verità, una pseudo verità, poiché non è detto che sia realmente comune a tutti coloro che hanno vissuto esperienze similari. Questa presunta esperienza similare invita però il lettore ad assaporare un altro aspetto, quello delle sensazioni e del sentimento. Il lettore si accoda al poeta “vate” e cerca di percepire le medesime sensazioni, fidandosi così del suo sentire.
Il componimento, come si è detto, è parte della raccolta Il cerchio aperto. La primissima stagione poetica di Erba è distribuita in due grandi coaguli, come due macrogruppi: Il male minore e Il nastro di Moebius. Entrambe le raccolte sono pubblicate all’interno della collana Specchio. Sono state pubblicate a vent’anni di distanza una dall’altra e vanno a racchiudere le raccolte precedenti arricchite con nuovi componimenti derivanti da nuove esperienze poetiche[3]. Nella prima raccolta, Il male minore sono confluiti i componimenti presenti in Linea K., Modena, Guanda, 1951, Il bel paese, Milano, Edizioni della Meridiana, 1955, Ippogrammi & metaippogrammi di Giovanola. Programmi di altri ippogrammi, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, 1958, Il prete di Ratanà, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, 1959. Mentre in Nastro di Moebius sono presenti tutti i testi de Il Male minore, in aggiunta alle poesie della raccolta Il prato più verde. Inoltre, per quanto concerne gli inediti pubblicati a questa altezza sono andati all’interno della sezione d’apertura Gradus. La continuità tra le due raccolte, cercata e voluta dallo stesso Autore, dal punto di vista editoriale e poetico, non è scalfita dalla distanza temporale di quasi vent’anni (17). Tutto il materiale pubblicato dal poeta, da lì a pochi anni, avrebbe trovato spazio in Moebius, che ne garantì la continuità[4]. Quest’ultima silloge potremmo dire che costituisce una summa poetica voluta da Erba che, andando a riassumere, nega sia avvenuta una rottura o uno stravolgimento negli anni di silenzio, dal 1960 al 1977. Tale negazione risulta essere l’affermazione stessa di una continuità. Una continuità che è insita negli stessi componimenti e che denota un percorso di vita e poetico, il quale non può mai essere concepito come una frattura. I due periodi, 1951-1960 e 1977-1980, costituiscono due parentesi di uno stesso percorso poetico. La costruzione poetica, o meglio narrazione, di Moebius definisce una figura priva sbavature. L’architettura è priva di troncature e può essere percorsa su entrambe le facce dell’edificio senza richiedere il superamento di un ostacolo. La poesia di Erba è connotata per una sostanziale continuità, leggendo i suoi componimenti non si percepiscono scarti temporali, anche in ciò risiede l’unicità di questo autore. L’unica vera cesura evidente presente nella sua esperienza poetica è quella che si frappone tra Il nastro di Moebius e la raccolta seguente edita da Scheiwiller. Si tratta de Il cerchio aperto pubblicata all’interno della collana l’Acquario nel 1983. La raccolta si compone di 27 poesie e pur essendoci un’allusione alla geometria già nel titolo il titolo, essa al suo interno smentisce le proprietà della circonferenza, andando a costruirsi un universo anti-geometrico, casuale, quasi governato dal caos. Come in Il male minore, anche in questa raccolta l’autore si sofferma su una geografia e una toponomastica inequivocabili[5]. Ciò che il poeta aveva compito in Il nastro di Moebius può considerarsi un’operazione poetica inclusiva e di riepilogo, una commistione perfetta di componimenti, ritmati tutti allo stesso modo lungo l’intero avvicendamento delle raccolte. Il cerchio aperto, invece, propone solo componimenti inediti che si avvicendano tra loro non linearmente. Ad un compendio marcatamente topologico e geometrico, se ne sostituisce uno privo di ordine. Il cerchio aperto nel suo intrinseco disordine costituisce la base germinale della raccolta di Erba più nota: L’Ippopotamo[6].
Erba con le sue raccolte si costruisce, o meglio progetta, una semantica del luogo, della dimora, allo scopo di crearsi una sua ars colendi. Moltissimi sono i richiami all’abitazione privata, anche con diminutivi e vezzeggiativi affettuosi e amicali: casina, villino, villa, villetta, casone. Ma a tutti questi luoghi domestici vanno aggiunti quelli di passaggio, ma che in tal periodo sono stati percepiti come propri nello spazio poetico: ospizi, uffici e hotel. Questi li troviamo in Tristi giochi di parole, Fine delle vacanze e San Martino. Il poeta spende molto nella descrizione minuziosa, quasi maniacale, degli arredamenti e degli interni di questi luoghi. È come se nella sua poesia vi fosse un invito ad abitare quei luoghi, il lettore si deve far condurre dal poeta al loro interno e deve provare le sue medesime sensazioni. L’arredo e le singole particelle che lo costituiscono sono isolate nei loro componimenti, esse vanno ad assumere quasi una funzione architettonica. L’oggetto d’arredo non è più simbolico ma diviene fondativo e fondante dell’abitare stesso. L’arredo diviene oggetto sacro, attraverso l’oggetto si riportano in vita ricordi e persone care:
Soltanto nell’immagine del padre
giovinetto, vestito da collegio,
[…]
riesco e mi piace riconoscermi.
[…] Gli antenati?
In cielo e in terra molte cose, Horatio…
Dunque nel novero degli eventi improbabili
niente è proprio impossibile, perfino
ritrovarti, confonderci tutti
in questo mare di nebbia sulle risaie.
Ecco, allora, che il poeta attraverso la foto resuscita il fantasma del padre “giovanotto”. In Erba aleggia sempre un rapporto con la propria gens, intesa nel senso romano del termine. Ciò lo si evince chiaramente già in Il nastro di
Moebius. A tal proposito basti pensare ai versi di Il bel paese. In questa raccolta c’è però il buon proposito del confronto con i propri avi, mentre ora vi è l’esperienza diretta. Qui ci si affida all’intercessione divina per mezzo dei cari defunti. Spesso i componimenti sono connotati da atmosfere luttuose come le «persiane socchiuse» in Quando penso a mio madre. Il lutto è sempre accompagnato da riservatezza evidenziata proprio dalle persiane socchiuse, è come se il poeta stesse cercando di elaborare il lutto e non fosse ancora pronto al confronto. Questa opposizione tra apertura e chiusura delle persiane indica la possibilità di accedere o non accedere a un patrimonio affettivo del poeta. Tale patrimonio è però svelato dal poeta medesimo mediante la descrizione degli spazi abitativi privati. Il cerchio aperto costituisce lo slancio, l’apertura del poeta verso un’altra dimensione, più personale.
Quelli di Erba sono degli antenati nell’accezione romana di Manes, come spiriti protettori della casa, e la sua apertura e chiusura può essere letta anche nei loro confronti. Il poeta per poter entrare in contatto con loro, mediante gli oggetti domestici, deve essere d’animo ben disposto.
Nella prima parte della produzione poetica di Erba, il recupero memoriale avveniva preferibilmente al cospetto della natura vegetativa del territorio padano, come sostenuto anche da Prandi[7]. In Il cerchio aperto il poeta riesce a ripercorrere la medesima ricostruzione partendo proprio dagli oggetti domestici, quelli della quotidianità. Se ci si ragiona, però, tali oggetti non offrono alcuno spunto non sono né talismani né icone cristiane o reliquie. Essi assumono però valore nel vissuto del poeta, nella sua esperienza personale, contestualizzati in tali circostanze divengono allora amuleti e oggetti sacri. Arredi arredi hanno però un aspetto del tutto ordinario, «istituiscono una residenza ma non hanno il potere di custodirla né di proteggerne gli inquilini, che appaiono infatti inermi tra le proprie cose in un verso centrale del Cerchio: libri stoviglie inquilini[8]». È la famigliarità ad edificare tali oggetti e a creare un ponte di ricordi con i defunti.
Abito a trenta metri dal suolo
in un casone di periferia
con terrazzo e doppi ascensori.
Questo era cielo, mi dico
attraversato secoli fa
forse da una fila di aironi
con sotto tutta la falconeria
dei Torriani, magari degli Erba
e bei cavalli in riva agli acquitrini.
Questo mio alloggio e altri alloggi
[…]
questo era azzurro, era spazio
luogo di nuvole e uccelli.
Tutto il componimento è connotato da un senso di precarietà rappresentato dalle nuvole intangibili accostate dal poeta al suo casone di periferia. Il poeta accompagna costantemente il lettore in una sua visione personale che continuamente diviene universale come per Studia la matematica. Il poeta agisce continuamente analetticamente, facendo diventare universale la memoria personale. Ciò che il poeta afferma è verità universale. Questa visione universalistica dell’esperienza personale la si riscontra anche in Implosion: «il cerchio è aperto / la tavola ha una falla / lo spiraglio è più bianco e meno freddo / chi cerco resta sempre alle mie spalle». Questi i versi con cui si chiude la raccolta Il cerchio aperto. Le persone ricercate dal poeta ormai sono solo ricordi e si trovano alle sue spalle; il cerchio che si apre è quello della sua intimità e della sua esperienza personale, ora a disposizione del lettore; il contatto tra passato e presente è fornito dagli oggetti, i quali fungono da passaggi temporali della memoria.

https://www.edizioniterradulivi.it/abbonamento-menabo/215
_________________________
[1] P. M. Forni, Poesia dell’ordinario, in Novilunio, 1992, pp. 108-110.
[2] L. Erba, Poesie 1951-2001, Milano, Mondadori, 2002, p. 142.
[3] L. Erba, Il male minore, Milano, Mondadori, 1960 e L. Erba, Il nastro di Moebius, Milano, Mondadori, 1980.
[4] L. Erba, Il prato più verde, Milano, Guanda, 1977.
[5] Basti pensare ai titoli ti alcuni componimenti: Istria, In Romagna, Niagara chic, Una visita a Caleppio.
[6]. L. Erba, L’ippopotamo, Torino, Einaudi, 1989.
[7] S. Prandi, Montale, Sereni, Erba: i segni e la morte, in Revue des Études Italiennes, XLVI (2000), 3-4, p. 222.
[8] Fioravanti, Per un commento a Il cerchio aperto di Luciano Erba, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del XVIII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di Guido Baldassarri,
Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, EsterS Pietrobon, Roma, Adi editore, 2016, p. 4.
Sostienici

Lascia il tuo commento