Zebù bambino e l'elegante confronto
Paola Casulli - Filippine

Zebù bambino e l'elegante confronto

diPerrone Luca

Davide Cortese è la mano unta di terra che ritorna dal sepolcro. Il campo santo dell'arte e di chi la semina e coltiva. Spesso vi affannate velleitari a dirimere questioni di supremazia tra opera e artista, donne e uomini indistintamente. Occasione per occasione scoprite che l'assoluto non appartiene, se non per attimi impercettibili ai più, al pianeta che abitate, sopra il cuore di Zebù.


Con sincera ed estasiata sorpresa, piacevole innocente stupore, scopro già dai primi tre versi dell'opera, che il presentimento di cui ho accennato a Davide, gode di ancoraggio nel reale. La nostra generazione, negli anni '90, assistette al processo mediatico a Marco Dimitri, imputato di essere a capo della presunta setta satanista "I bambini di Satana". Dimitri, morto a febbraio dello scorso anno, fu accusato in pompa magna di delitti terribili e poi assolto in tribunale e nei trafiletti. Prima di trasformarsi in una associazione a delinquere di stampo editoriale, i Wu Ming furono temibili guerrieri libertari. Assunsero le difese del concittadino Dimitri e raccontarono la storia parallela e verosimile di un intellettuale a capo di una no profit culturale improntata al dionisismo nietzschiano. Al fanciullo "io sono" dell'ultima metamorfosi dello spirito, illustrata eternamente nello Zarathustra. Dioniso è capro con assoluta priorità sul Demonio, che lo ha plagiato. Proprio come Sacra Romana Chiesa rapinò lo scenario e il panorama escatologico dell'Alighieri.


Prima di aprire "Zebù bambino", l'asprezza amara, portata dalla solitudine e dal freddo del lembo di terra in cui sono cresciuto, manteneva fermo il sospetto che potesse baluginare tra i versi di Cortese una qualche forma di conflitto con la formazione cattolica. Quando lessi dell'indifferenza imperitura nei confronti del Cristianesimo, appartenuta a Italo Calvino, in virtù dell'assenza di una qualsivoglia forma di catechismo, mi sentii incompleto. Blasfemia, iconoclastia, anticlericalismo, odio cieco verso la setta mortifera degli inquisitori, mai cesseranno d'essere parte della nostra cifra spirituale.


"Zebù bambino" sposta con eleganza il confronto su un terreno completamente nuovo e fertile, sebbene sia radicato solidamente nella propria cultura ed eredità di appartenenza.       


Scoccano insieme

la mezzanotte e il mezzogiorno.

È l’ora di un eterno crepuscolo.

Due miei volti si specchiano nelle ginocchia sbucciate

del demone bambino.


I primi sei versi del poemetto. Il primo distico disegna un Uroboro perfetto ma, qualora ci fossero dubbi, il terzo elegge lessico Nietschano conclamato: l'"eterno ritorno dell'uguale", "Il crepuscolo degli idoli". La dicotomia dei volti richiama alla mente l'iconografia di Giano Bifronte, nonché lo pseudo-manicheismo cristiano (la supremazia del bene è netta e rimarcata, senza scampoli o margine dìimprevedibilità) e l'ambivalenza morale propria di ogni essere umano. Forse anche quel particolare quadro clinico che l'estensione secolare del tribunale dell'inquisizione, la psichiatria, sfrutta al fine d'imprigionare la magia naturale e la sapienza. Corse folli per l'aia e gli asfalti, sbucciano ginocchia pronte a dare l'assalto all'apparato spirituale del potere, il Moloch millenario e apparentemente immor(t)ale degli assassini di Cristo.

Il δαίμων è socratico molto più di quanto non sia satanico, ma questo la maggior parte di voi non può saperlo.

Davide Cortese (nomen omen), per mezzo della delicatezza lirica più spontanea, scanzonata, canzonatoria e appassionata, evoca "eterno crepuscolo" per gli idoli: la morte di Dio e delle brutture, degli abominii commessi in suo nome.   


Le rime sono efficacissime, calibrate come sonar balistici, fresche e allegre, giullaresche. I significanti assonano melodicamente, a comporre un libro affilato e acuminato, godibile indistintamente da profani e sacri.




 Accende mille fiammiferi nella notte

Si brucia il ciuffo e le scarpe rotte.

Brucia un nome scritto su una nave.

Brucia la porta per far cadere la chiave.


Colgo il furto sapiente proprio del grande artista: i fiammiferi di J. Prévert, le "mille sigarette" di Fred Buscaglione, le "scarpe rotte della Befana, mitologia affine e concorde, coerente. Stanze fredde e fumose, baluginii nell'amata oscurità, atro comporre le tenebre quiete e altrimenti silenti. Leggo "la chiave" del verso finale quale metafora della proprietà e il fuoco come catarsi dall'oppressione. Scorgo quindi allusioni (cos'altro dovrebbe offrire la poesia?) di natura politica, l'impegno libertario riottoso e sovversivo, sotteso a ragion veduta per tutto il gradevole corso della raccolta. Lo spiraglio di un nome femminile scarificato, dapprima, sulla carne e funestato dalla terapia al laser poi... Lilith?


Ha macchiato i calzoni puliti

con il succo di frutti proibiti

poi col verde dell’erba e la terra

dimenandosi a finger la guerra.


La quartina qui sopra raprresenta uno degli infiniti modi in cui pochissimi esseri umani, nel corso della storia dell'umanità, potrebbero esprimere e rappresentare i segreti tutti del Cosmo, in una folgorante comunione di analisi e sintesi sapienziale che emoziona, anche al netto della rima baciata, a prova di scolarizzazione. Una nenia infantile, che dice psichedelia psicotropa per "mela", amore per pudore, gioia per castigo e pace.

Pochi fulminei e fondamentali significati, come anelli di catena, si svolgono per tutto il corso dell'opera, baciati come già sottolineato da figure di suono melodiose come un Notturno, infuriate come una Fuga. Tuttavia, seppellito tra i lazzi c'è il dolore quasi insondabile. In definitiva è una sfida alle stelle come quella di Romeo.


Dentro la scatola c’è un flauto d’osso.

Tra pochi giorni ritornerà cenere

E i morti se lo soffieranno addosso

Correndo intorno a un lumicino blu.


Versi di Gabriele Galloni, dedicatario della silloge. La poesia è ispirazione, canalizzazione e processo linguistico spontaneo, molto più di quanto non sia tecnica e cesello, rilfessione o maestria. La poesia necessita d'estro. I quattro versi del bambino caduto nella luce strillano vaticinio o profezia, esigono un riscatto, attenzione, risposta... Davide Cortese si fa carico del compito ingrato di tendere le braccia al vuoto sotteso per tutta la sua opera ordinata e melodiosa. I versi che seguono sono uno specchio che fatico a immaginare prodotto di calcolo consapevole. La memoria umana offre tra le sue funzioni la frammentaria e mirabile capacità di fotografare per mezzo degli occhi e della mente la totalità dell'esperienza, specie se il tramite è l'emozione. "Il teatro della memoria" si basò sull'associazione di parole e immagini. Fu l'apice delle possibilità di questa funzione che distingue gli esseri umani dagli altri. La parola che rimanda immagine è fondamentalmente e prima di tutto poesia.   


Nella scatola di bambù

che un giorno gli donai io

serba una bambola vodoo

con le sembianze di dio.


Nessuna retorica. Sebbene la tentazione di scrivere una sestina, triplo di due e doppio di tre, che rimi blu, Zebù, bambù, voodoo... l'afflato immane e il tormento pruriginoso, l'anelito a punzecchiare il feticcio di dio, farsi vento a soffiare cenere in questa danza di portenti a porte chiuse sia davvero irresistibile...

Per acquisti


La lettura di questo articolo è riservata agli abbonati
ABBONATI SUBITO!
Hai già un abbonamento?
clicca qui per effettuare il login.

Commenti

Lascia il tuo commento

Codice di verifica


Invia

Sostienici