“Debussienne” di Francesca Pilato
Alberto Cini - La birra

“Debussienne” di Francesca Pilato

diRoberto Maggi

Chi di noi può conoscere con esattezza il meccanismo di influenza di un’arte sull’altra? Parola e suono, letteratura e musica, hanno un rapporto antico quanto il mondo, eppure risulta difficile stabilire un quantum, determinare una correlazione precisa. E se per i cultori della poesia l’espressione compositiva si sposa naturalmente con la musicalità dei versi, come suggerisce la comune accezione di canto, altrettanto non si può dire per il prosatore, che di solito ha poca affinità ha con questo tipo di relazione.

Esistono delle eccezioni, ovviamente, e neanche poche. Un’infinità di riferimenti per chi ama sostare e inebriarsi tra le due voci. E una di queste è la raccolta di racconti Debussienne (L’Harmattan, 2018) di Francesca Pilato, che, per stessa esplicita premessa dell’autrice, trae spunto dal primo libro dei preludi di Claude Debussy. Con favore accolta dalla casa editrice parigina, l’opera è stata pubblicata in lingua francese, di cui l’autrice dimostra ampia padronanza. Dodici racconti per dodici preludi, dove le partiture del musicista, con le relative specifiche in merito a struttura e andamento musicale, danno luogo a uno sviluppo di storie che idealmente vorremmo immaginare derivate “per assonanza”.

In tali esperimenti di trasfusione -dialettico-emotivi, inevitabilmente si ha consapevolezza della difficoltà dell’impresa, talmente accidentato è il processo di osmosi tra i due comparti espressivi: essere coerenti allo spartito pur rimanendo fedeli al proprio sentire, alla genuinità della propria percezione. C’è il rischio di avventurarsi in sentieri arditi per poi ritrovarsi in una sconfortante terra di mezzo, prigionieri di un progetto incompiuto.

Ma sono proprio queste le sfide che stimolano gli autori desiderosi di ricerca: tentare di esplorare strade curiose, soluzioni a volte un po’ folli, nell’intento di perseguire la propria idea, le proprie passioni, incuranti delle perplessità di critici ed editori (e questi ultimi, bene farebbero a realizzare di quest’opera un’edizione italiana).

Fortunatamente ha creduto alle sue aspirazioni e ispirazioni, Francesca Pilato, e ha confezionato un’opera originale, comunque attinente al suo modo di intendere la scrittura in subordine alla musica. E facendolo in modo arioso, inventivo, filtrando creativamente gli input sonori, e prescindendo, laddove necessario, dal loro dettato.

E tutto ciò senza assimilarsi alle correnti allettanti del mainstream, ma adottando una cifra stilistica personale, costellata di soluzioni alternative, ora squisitamente liriche ora spavaldamente filmiche, quasi di impronta verista. Deliziandoci di descrizioni fresche e leggere come ali silenziose.

Si ha la sensazione, nel cauto dipanarsi dei racconti, di immergersi in un’atmosfera malinconica, ricca di melodie sfumate, moderate e pacate anche nei momenti più turbolenti (il tumultuoso e vivace Ce qu'a vu le vent d'ouest), quasi delle voci riecheggianti da lontano. Consegnandoci un sottofondo di fugacità, nei riguardi della vita, dei sentimenti, dei rapporti d’amore. Momenti di fragilità da preservare, con sussurri, più che con grida: “Temo con le parole di violare un istante di perfezione”.

Ogni racconto ha una trama sfumata, fatta di veli impalpabili, poco centrata sulla consequenzialità narrativa, ma piuttosto costellata da quadri impressionisti, da sequenze di immagini che vanno poi raccordandosi per descrivere un insieme armonico. Eppure, al tempo stesso, offrono rappresentazioni messe a fuoco, dettagliate, curate, inquadrature minimaliste che ci trasportano sulla scena, come nel racconto “siciliano” La fille aux cheveux de lin.

Sorprendentemente, nella maggior parte degli episodi, si avverte una sorta di estraneità dell’autrice dagli oggetti della narrazione; ma anche per il più accurato e abile dei ritrattisti è impossibile alienarsi del tutto, annullare la partecipazione emotiva. Così la presenza sui luoghi di ripresa ci viene suggerita da una supposta familiarità con gli ambienti descritti (gli sfondi marini di Voiles, i panorami montani di Des pas sur la neige), oltre che da una complicità con i personaggi e i caratteri descritti, sui cui tratti dolcemente si posa lo sguardo carezzevole della scrittrice torinese. La sua presenza discreta e leggera si indovina dietro le quinte, sottesa, mentre le scene si susseguono in un adagio morbido, accennato.

Non mancano omaggi espliciti al genio ispiratore (La dance de Puck), giocando analogicamente sul ruolo del folletto che girovagando va nella notte Shakespeariana, così come meditati tributi alla poesia (La cathédrale engloutie) -di cui la Pilato sappiamo essere profonda conoscitrice- e alle sue più tipiche ambientazioni: una mansarda umile ove la creatività rifulge all’ombra della Cattedrale di Notre Dame, che diviene spettatrice e leitmotiv di ascesa e caduta, di felicità e disamore. Un simbolo rovinosamente inghiottito dal sogno, che ci trascina a certi cliches romantici sull’essere artista, come quelli grotteschi di “Vita da boheme” pellicola surreale e tragicomica che ritrae, con drammatiche tinte in bianco e nero, un trio sgangherato di artisti che vive tra stenti ed espedienti.

A conclusione della bella e variegata raccolta, un racconto che ci offre uno spaccato del mondo circense, (Minstrels), già di per sé stralunato e fantastico, in grado di evocare tante corrispondenze (basti pensare al mitico e truculento Freaks di Tod Browning) e richiami infantili, popolati di figure scintillanti su un’arena festosa. Uno sfavillio di riflettori solo apparente, e che spesso nasconde un fondo di velata tristezza, di amara melanconia. La medesima carica emotiva che magicamente emerge dalle atmosfere rarefatte di “The Carnival is over” dei Dead Can Dance, dove la voce baritonale di Brendan Perry sprigiona suoni e ricordi struggenti.

E se quel contesto patinato lo si dovrà lasciare per non divenir preda del mostro dell’abitudine, come decide il clown disilluso che “per la prima volta ha sfiorato il mistero femminile”, è perché l’uomo non si sazierà mai di nuovi orizzonti. Come fanno le grandi anime assetate di novità, mosse da spinte inquiete. Testimone ne è Isadora Duncan nella sua danza libera di silfide diafana, eroina tragica di inizio e fine volume, attraverso la quale la narrazione si chiude allusivamente a cerchio. Come a ricordarci che ogni momento è irripetibile e sublime, unico nella sua essenza, e va vissuto appieno: perché l’istante successivo sarà già cambiato e niente sarà più lo stesso.



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