Antonella Sica - L'ira notturna di Penelope
Elio Scarciglia, Cappella Baglioni di Spello, I volti del Pinturicchio

Antonella Sica - L'ira notturna di Penelope

diEmanuela Dalla Libera

Quando il desiderio di sé diventa poesia



Ogni silloge poetica raccoglie in sé un mondo, sia pure circoscritto ai testi che lo esprimono e ai temi che enunciano la percezione che di esso ha il poeta. Ogni silloge racchiude un senso, un messaggio che emerge dalle parole e dai suoni, dalle immagini e dai silenzi, come un frutto che si raccoglie dalle pagine, una cifra che si fa strada nella molteplicità delle cose dette o sussurrate, nei rintocchi che esplodono dalle parole sintonizzate sui moti dell’animo o sui riflessi della mente. In questa raccolta di Antonella Sica, però, il primo impatto viene generato dal titolo, L’ira notturna di Penelope, titolo che già in sé racchiude una direzione di pensiero, un convincimento che nei versi viene dipanato, anche se non esaurisce la materia del libro. Penelope è la donna che opera e tace, che rappresenta un ruolo, che assomma in sé le virtù (imposte) del femminile, che riflette, nella pazienza delle mani, nella fedeltà allo sposo, nel chiuso delle stanze, nell’abdicazione di sé, la centralità della casa e della famiglia. Ma Penelope storicamente si stanca, rompe il bozzolo del gineceo, rivendica una dimensione individuale al di fuori di ogni categoria che la inchiodi a una funzione codificata, diventa Agnodice, Ipazia, Artemisia, in lotta con un mondo che la esclude, mentre l’uomo vaga per i mari, esplora il mondo, si delizia di trasgressioni che nessuno gli rimprovera o che sono addirittura il suo vanto, costruisce la storia. Anche Penelope nutre altri desideri, li cova nel silenzio della notte che la protegge col buio, disfa la pelle cucitale addosso, la pelle di mia madre, di mia nonna…ogni giorno con pazienza disfo un punto combattendo. In Penelope la poetessa vede la costrizione dalla quale fuggire per trovare una dimensione propria, svincolata dalla inossidabilità del mito e dalla tirannia della tradizione, dando voce a se stessa, alla sua storia, alla sua visione del mondo. Le poesie della silloge si snodano in un percorso che le raccoglie in sezioni dalle quali fioriscono versi sgusciati dai punti scuciti, dall’identità trovata, un’identità fatta di un quotidiano che tracima però nell’universale. Le cose, i gesti si fanno simbolo, veicolano verità, stati d’animo, dubbi e certezze. A volte il dubbio diventa inganno, magari ingenuamente perpetrato, la menzogna su piccole cose, che però diventa funzionale alla ricerca di un “ubi consistam”, deviazioni dal vero/solo cercando la strada/per tornare a casa mia. La tensione ad altro la si può trovare anche in un altro testo dove la poetessa dice Ho lasciato sempre/qualcosa nel piatto/pur avendo ancora fame/ma ho desiderato correre/scomposta nei prati/e mangiare l’erba/solo per conoscerne il sapore, dove tenersi la fame è come aspirare ad altro, è il desiderio di scoprire cose nuove, è il non sentirsi appagati da ciò che è immediatamente raggiungibile o già raggiunto (o imposto?), e quello scomposta suona ancora una volta come il rifiuto di qualsiasi imposizione, l’impeto a uscire e a sperimentare, come fa Ulisse.

Se la notte è rifugio, se è il luogo della cospirazione blindata dal buio, della ribellione che si traduce nel disfare i punti, nel distruggere ciò che passa di madre in figlia per tradizione, la notte stessa si fa veicolo ne La notte bambina di un quadretto che potremmo definire di domestica dolcezza in cui precipitano e si fanno piccole realtà macroscopiche, se non fosse pervaso di una inquietudine sottile. La notte bambina che cerca la mano e consolazione è la poetessa stessa alla ricerca di certezze e verità, e quei gesti di sbriciolare biscotti e piangere sul cuscino altro non sono che l’ingenuità costretta a crescere in una trasposizione/sovrapposizione di dimensione umana (bambina) e entità naturale (la notte). Un altro testo suona come ricerca. Laddove la poetessa dice Ti porterò, quel giorno, /a cercare tutto il bello/dimenticato nel doppio fondo/del nostro sguardo sembra quasi emergere il desiderio di fendere la bruttezza, di lasciarla a periferie squallide fatte di capannoni e case/malate di ferrovia, di cercare la bellezza dentro di sé, dove altri non la vedono (o negano che ci possa essere). Il tutto rivendicando una forma di libertà estrema, o una nuova disposizione di fronte alla vita (Lascia che io sia qui/muta nell’alba lenta, nuda/di cose da fare), svincolata dal sogno (non portiamo castelli in aria/del domani sulle spalle), senza sapere mai arrivare in fondo all’odio/o all’amore, con la consapevolezza tuttavia di perdere sempre, cose importanti (premi, lavori migliori), o cose banali (l’ombrello) perché proteggersi dalla vita/è un inutile fardello. E tutto questo con un lessico aderente alla realtà quotidiana in cui si muovono o stanno le cose di tutti, le cicche di sigarette, la fermata del tram, la televisione, la carta lucente delle caramelle, le stoviglie tintinnanti. Fino a quella lista della spesa che è l’ultimo verso della poesia che chiude la sezione La vita semplice delle ombre, un testo che è quasi un’elegia, soffusa della triste consapevolezza della dissoluzione della vita e della memoria.

Ma ci sono altri due testi, a mio modo di vedere, bellissimi. Uno è Le finestre, in cui una sorta di autobiografia si snoda in un tempo che è insieme spazio e nell’intreccio di tempo e spazio un sentire originale, sospeso al vuoto/pieno che appare al di là della finestra, esterno eppure interno alla poetessa, una concretezza non tangibile in cui manca il rapporto umano pur nella presenza di figure che si muovono però come assenti, lontane, inafferrabili, al punto che l’unico interlocutore diventa platealmente il mare (E a destra si apre la fuga del mare/con cui sono solita parlare).

L’altro testo, pure esso insolitamente titolato (le poesie della raccolta non hanno quasi mai titolo), Transitorio porto sicuro, sembra rivolto a una persona cara (mi piace pensare sia il figlio), una persona che si vuole proteggere ma alla quale non si può negare per sempre la verità perché ancora tu non veda/che non esistono strade che non siano/il tuo coraggio di percorrerle/senza una meta.

Mi suona qui ancora l’ira di Penelope che invoca, nel coraggio di uscire combattendo da una pelle cucita addosso, la libertà di essere libera.


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