Ascesa e declino dell'io lirico
Paola Casulli - Filippine

Ascesa e declino dell'io lirico

diLucio Macchia

Tento di tracciare, nei limiti imposti dalla lunghezza di un articolo, un rapido schizzo della linea evolutiva dell’io lirico nell’era moderna. Tre movimenti per schematizzare sommariamente questa evoluzione. Primo movimento: l’io poetico petrarchesco, dove il dire lirico coincide con il racconto della propria vicenda umana, dei propri sentimenti nel mondo. Al centro, l’amore, come sentimento per eccellenza, fulcro del sentire, sorgente di ogni senso esistenziale umano. La poesia assume una forma fortemente connessa al vissuto personale del poeta, alle fasi della sua vicenda umana: una forma diaristica, un appuntare i propri stati d’animo. “Solo et pensoso i più deserti campi / vo misurando” è l’archetipo di ogni lirica di questo tipo, tesa alla sublimazione poetica. Questo discorso petrarchesco informa la lirica per secoli e trova il suo apice nell’era romantica, in cui l’espressione del sentimento viene posta al centro generativo del poetico, esaltata al punto tale da oltrepassare le colonne d’Ercole del puro e semplice sentimento, fino a spingere a lirica verso territori al limite dell’irrazionale, dell’onirico, dello straniante. Si tocca lo spigolo duro di una certa modalità espressiva: «fuggo/da quel che sono o prima sono stato / per confondermi con l’universo e lì sentire / ciò che mai posso esprimere / né del tutto celare» scrive Byron. Poe, anticipando la modernità, libera il macchinario della fantasia, del «sogno dentro a un sogno». «L’infinito» leopardiano parte da un assunto diaristico, da una esperienza sensoriale, che viene spinta al limite di un’intuizione che si fa creatrice di un mondo nel mondo: «io nel pensier mi fingo». Tutto questo ci conduce al secondo movimento: alla poesia che, partendo da Baudelaire, prosegue la navigazione estrema dei romantici, rovesciandone però il paradigma espressivo. Non più un io lirico centrato sulla dimensione del sentimento, bensì un soggetto poetico completamente nuovo, che apre, nel movimento introspettivo, una dimensione di pura e libera immaginazione. Il poeta utilizza la propria interiorità come lente per guardare al mondo, distruggerlo e ricrearlo, non secondo un registro diaristico, non semplicemente raccontando le proprie vicende o il proprio sentire, ma affidandosi al linguaggio liberato da una fantasia sfrenata. La poesia, come osserva Friedrich, viene “spersonalizzata”: «con Baudelaire comincia la spersonalizzazione della lirica moderna, almeno nel senso che la parola lirica non scaturisce più dall’unità di poesia e persona empirica[1]». L’interiorità poetante non più come racconto autobiografico ma come fonte di energia creativa illimitata. Come eccesso, non completamente controllabile persino dallo stesso poeta. Questo io “simbolista” (uso nel corso dell’articolo questo termine in senso lato, ad indicare complessivamente la temperie descritta) pervade la lirica della modernità, sviluppandosi in molteplici rivoli espressivi, e generando indirettamente le modalità artistiche successive, che sorgono dialetticamente come adesione o variazione o reazione a tale approccio totalizzante. Gli anni tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento vedono lo sviluppo di filoni poetici che declinano in varie forme l’assoluta fiducia e padronanza dell’io lirico simbolista: Rimbaud e il filone surrealista a lui afferente, Mallarmé e poesia pura. E poi l’avanzata di Eliot, che frammenta la forma poetica, destruttura l’azione lirica, apre alle contaminazioni. Sotto il peso delle vicende storiche, del progressivo disorientamento dell’individuo, il discorso lirico vacilla, perde la sua forza autonoma: è il terzo movimento della nostra evoluzione, che tende ad emergere compiutamente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Un esempio è Caproni: «in un articolo del ’47 individua come tratto caratteristico di quest’ultima [la poesia contemporanea] la “egorrea epidemica”, ovvero la narcisistica ostensione di un io quale unico attore di un monologo lirico e quale costruttore di simboli e “oggetti” metaforici[2]». A fronte di ciò, sperimenta una poesia che trasla dal monologico al dialogico, con uno stile che inclina al racconto, al parlato, e in cui l’io tende a “oggettivizzarsi” e smarrirsi in una molteplicità di presenze: «così di rado l’ho visto / e, sempre, così di sfuggita. / Una volta, o m’è parso, / fu in uno dei più bui /cantoni d’un bar, al porto. / Ma ero io, era lui?». Nella temperie del “terzo movimento”, l’aspetto diaristico, espulso dalla porta nell’approccio simbolista, spesso rientra dalla finestra, in una visione molto meno strutturata rispetto alla tradizione, sicuramente frammentata e incerta, più “crepuscolare” (e quel movimento anticipò per certi versi questa sensibilità) ma comunque presente (con modalità diverse in ciascun autore) come congiungimento con una realtà non più demiurgicamente ri-creata, ma piuttosto “semplicemente” vissuta come terreno di esperienze – anche minime – sulle quali si innesta un discorso poetico di «adesione al mutevole e doloroso profilo dell’esistere[3]». Lo troviamo ad esempio, minimalisticamente, in Bertolucci: «entra nella mia visuale da un giorno / quieto di settembre, la tavola apparecchiata / i figli stanchi d’attendere». Successivamente, altre tendenze sono emerse e si sono intrecciate, in continui ciclici richiami al passato rivisitato dalle esperienze del presente, ma possiamo forse spingerci a dire che questo indebolimento dell’io lirico è entrato ormai nel codice genetico del poetare. In questo senso, la parabola velocemente tracciata in questo semplificato excursus, può forse illuminare qualcosa della nostra contemporaneità. In fondo, ogni dire poetico attuale fa inevitabilmente i conti con i movimenti descritti, mescolandoli e intessendoli in modalità sempre nuove e articolate. Il discorso poetico di Celan[4] racconta questa complessità irriducibile. Egli vive drammaticamente la crisi dell’io “simbolista”, e la sua scrittura si colloca tra la nostalgia di quel procedere, e il senso di precarierà e lacerazione che la storia ha impresso in modo irrimediabile sul linguaggio. È, forse, nella straordinaria e potente complessità della sua posizione, un simbolo (non univoco certamente) di una condizione artistica contemporanea dell’io lirico, che ha perduto – non senza nostalgia, e senza mai rinunciarvi del tutto – l’idillio dell’io sono petrarchesco e dell’io creo simbolista. E spesso si ritrova – sperduto – in un io tento, nella dimensione sempre solitaria, ambigua, precaria – ma comunque irrinunciabile – della parola poetica.

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[1] H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Garzanti 2002 (prima edizione originale 1956).

[2] E. Testa, Dopo la lirica, Poeti italiani 1960-2000 (Einaudi, 2005).

[3] Ibid.

[4] Si veda il mio articolo Lungo il meridiano (in due parti) dedicato a Celan

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