Catabasi, I
Stefano Negri, Monaci birmani

Catabasi, I

diDiego Riccobene

While yet a boy I sought for ghosts, and sped

Through many a listening chamber, cave and ruin,

And starlight wood, with fearful steps pursuing

Hopes of high talk with the departed dead.

 

 

Da ragazzo andavo in cerca di fantasmi/ e attraversavo / fugacemente stanze vigili, caverne e ruderi, / e boschi illuminati dalle stelle, con timorosi passi / perseguendo / speranze d’alto conversare coi defunti.

 

Così Shelley nella traduzione di Rognoni per i Meridiani Mondadori1.

 

Andare in cerca di fantasmi è fatto di poesia. Per imparare a solversi sembra necessario acquisire la lingua di chi già è solutus, di chi dal demanio della vita ha già avuto congedo; e parlare a quelli con certa circospezione, saperne percepire le frequenze intermittenti, le sfrondate alternanze tra vicinanza e allontanamento subitaneo.

 

Non conosciamo Arte che non si merga – o che non voglia farlo – nel lago dell’Altrove. Chi scrive deve saper vedere, dopodiché dunque, deposto l’assunto, sarà impossibile non scorgere le pozzanghere di buio che fanno nido lungo le trafitture, pur minime, del giorno.

 

La regola è sempre un cedimento, una piccola inflorescenza di putredine negli angoli della stanza più azzimata, le tane di ragno o i formicai che puntinano in nero superfici usurate dal respiro: vi si aprono i varchi della lingua ignota, quella che parla non per natura, non per necessità; non perché estuario di dimensioni circoscritte, ma perché qualcosa si schiuda e riveli; per essere testimone e oggetto di testimonianza.

 

Tuttavia domando: a cosa credere, in che misura? Il verso è fatto rituale, come lo è certa prosa. Il fatto rituale è a sua volta artificioso per natura, finendo per non rispondere alle richieste immediate della visceralità.

 

Sarà allora da mis-credere la voce del poeta, ovvero amarlo proprio perché mendace e miscredente, perché parla con gli Altri secondo codici pre-determinati, talora rigidi, talora dettati. Sarà perché il canto non conosce il filo tenue della confessione, se non secondando lo sporco passaggio traverso la maschera e l’affiliazione a un terzo stavolta irrogato con tale accortezza da non riceverne menzione.

 

E pure: gli Altri non sono affidabili. Sunt aliquid, questo è certo, come dice Ceronetti2 citando le iscrizioni funerarie romane. Anche al cimitero riposa la menzogna, nella compostezza concisa di un epigramma o di un’epigrafe, ad esempio. Quella di chi abbandona il corpo, ma che si celebra e ricorda in quanto corpo medesimo, inguainando la lingua di chi con essi parla, foderandola dell’ultima lamina di sacralità sottile rimastaci dal setaccio del commercio innestato su grasso suino bruciato al sole.

 

Cercare quelle intercapedini e soffiare, auscultare la contrazione, acquisirne contezza: questo ci è dato. Non rimane tempo per accapigliarsi sopra i velari dell’inattuale e tentare di strapparli, dacché bisogna trascrivere il silenzio sillabato in nobiltà. La confessione li disturba, è tediosa, non sloga né deforma la sintassi, nemmeno quando scalfisce la sillaba formulante per significare qualcosa di finitamente persuasivo.

 

Shelley descrive i suoi passi dicendoli “timorosi”, fearful.

Interrogare il fantasma è atto posturale, intellettuale (qui in ragione dell’autore stesso e del concetto situato a monte); turba il sonno, non quello di chi è rimasto, ma di chi è andato. Quindi che si compia con fare timoroso e pure tormentoso (come non potrebbe?), gracidato come le rane che sovrintendo l’ingresso, e agisca secondo codici dotati di un loro interno e indicibile rigore.

 

Serve terrore per adempiere l’alto conversare – serve per la poesia, diremmo –, tradotto nel capace suono di chi sa il luogo ove la mendacia s’occulta, capace di sporcarci per un passaggio che ci inquina momento dopo momento, decretando massimamente chi siamo e perché: Loro stessi sono inquinati, corporae excedunt pestis3.

 

Tendiamo l’orecchio, cessiamo una buona volta il vocìo, traduciamo la lingua altra. Ma prima: bruciamo l’incenso davanti alla porta chiusa.



1 P. B. Shelley, Opere poetiche, Mondadori, Milano 2018.

2 Si cita in questa sede il saggio di Guido Ceronetti intitolato Aliquid, in explicit all’opera Iscrizioni funerarie, sortilegi e pronostici dell’Antica Roma, SE, Milano 2018.

3 Libro VII, v. 737 da Virgilio, Eneide, RCS Libri, Milano, 2002.




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