Catabasi II
Elio Scarciglia, Torre Uluzzo, Tramonto

Catabasi II

diDiego Riccobene

                                        Oh quanto è arduo distinguere dal grido

                                        Della morte la voce della pena!1

                        M. Lèrmontov, Kallý

 

 

Certamente, lo è. Eppure s’ha da fare, per questa croce che chiamiamo arte, che chiameremo – dopo – rivelazione.

Il grido è forte, supremo. Non può addimandarsi alla stoltezza del compromesso, perché è l’unico rito in cui invero possiamo dirci. È la fine che ci conforta, lo spargimento del nostro fluido verso le rive dell’incompiuto, quello che si definisce tentativo di essere-altro-da-sé.

Di vincere il dasein con un adempimento ancora più macroscopico.

 

Come Heidegger che, facendosi esegeta dell’aedo di Tübingen, afferma la poesia dello stesso a guisa di unica vicenda sacra possibile, noi pure possiamo affrancarci dalle le rigidità loquentes ed elaboratamente piane della contingenza, e varare altri codici: vergarli, pure.

 

“Le primizie appartengono solo alla divinità”2, così sostiene Hölderlin. Dobbiamo quindi lavorare il frutto, la primizia, perché sia partecipe di una comunione più allargata? Il fuoco può essere sottratto, ma la conditio posta non è solamente affare prometeico, ossia volto alla messa in uso, al bene comune; la comprensione, viceversa, non è che l’essere un colloquio in senso perentorio, posto che il linguaggio non è ac-caduto, ma essenza. Insomma, di nuovo citando Heidegger, questo è “da quando gli dèi ci conducono in un colloquio”3.

 

Ecco come il divino si esperisce: perché “il linguaggio è il più pericoloso dei beni”4. Si consideri quell’informe e continuo atto di sofferenza, che si consuma scientemente in ricerca fidelizzante verso la natura prima del colloquio, la crepa tra illusione e delusione, tra essere e non-ente.

 

Il sofferire che il linguaggio impone è l’unica via iniziatica che possiamo percorrere per giungere all’osservanza del fine – e della fine. Siamo portati all’excrucior per natura stessa dell’agnizione: che la parola originaria giaccia lontanissima da noi, profondata in un abisso a-storico. Nella morte.

 

Detta agnizione può avvenire constatando la necessità di sacralizzare la lingua in modo da decifrare la chiamata del divino (ovvero per stabilirne, oggi o domani, il necrologio), di vivere tale condizione non tanto come segno di compartecipazione collettiva, ma come fabbisogno di un espletamento che contenga – meglio, che partorisca – i codici necessari per ritualizzare.

 

Non si invoca il fine impiegando un dire piano e composto. Non illudiamoci che sia così semplice, che sia sufficiente prestare attenzione ai barbagli tra gli stipiti o agli improvvisi squarci di luce ribellatisi all’ombra. Non basta. Si tratta di scelte che oltrepassano scopi conativi, non hanno a che vedere con quale grado di comprensione un fruitore eventuale avvicina il verso.

 

Si tratta di una verticalità dovuta, diacronica finanche, uno scavo esperienziale continuo e inconcluso. “Gli dèi possono venire alla parola se essi stessi ci chiamano o reclamano”5.

 

E se un dio reclama, qualunque sia, pertiene al linguaggio liminare, quello della zoé. Uno strumento bagnato di mysterium, che non ci è consegnato dal retaggio esperienziale, ma che è la poesia stessa a forgiare, a “rendere possibile”.

 

La poesia non fa uso della parola, ma la forgia dalla crepa che ci recinge come uomini, la ri-modella. La crea: così distingue la voce della pena dal grido della morte, risponde alla chiamata.

Questo è il rito.



1 Cito la traduzione di Tommaso Landolfi da M. Lèrmontov, Liriche e Poemi, Einaudi, Torino 1963.

2 M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988.

3 Ibid.

4 Ibid.

5 Ibid.


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