Frammenti di un discorso poetico
Opera di Luciano Schifano - per gentile concessione di Lorena Fiorini

Frammenti di un discorso poetico

diLucio Macchia

Roland Barthes ne «Il grado zero della scrittura»[1], conduce un affascinante ragionamento sulla natura della poesia moderna. Possiamo schematizzarlo, per amor di sintesi, in pochi fondamentali movimenti. Innanzitutto, B. divide brutalmente la storia della lirica in due periodi: “classico”, ovvero dalle origini fino a Rimbaud, e “moderno” da Rimbaud in poi. Far iniziare la modernità da Rimbaud piuttosto che, come usuale, da Baudelaire, è una scelta particolare, che sposta poco in questo ragionamento e che probabilmente è motivata dal carattere ibrido e “di passaggio” della figura dell’autore dei Fleurs. B. attribuisce alla poesia “classica” una natura di “prosa arricchita”, ovvero di scrittura prosastica a cui il poeta aggiunge una serie di abbellimenti e “musicalizzazioni” che ne rendono la fruizione più piacevole e intellettualmente divertente. Addirittura, B. arriva a citare una fantomatica equazione di Jourdain [2] secondo la quale, chiamando “a, b, c” gli attributi del poetico «come il metro, la rima o il rituale delle immagini» [3], si può affermare che: «Poesia = Prosa + a + b + c […] Da cui risulta con evidenza che la Poesia è sempre differente dalla Prosa. Ma questa differenza non è di essenza bensì di quantità. Essa non attenta dunque all’unità di linguaggio, che è un dogma classico. […] La poesia classica era semplicemente sentita come una variazione ornamentale della Prosa, il frutto di un’arte (cioè di una tecnica), mai come un linguaggio diverso o come il prodotto di una sensibilità particolare» [4]. C’è sempre, insiste B., al di sotto di questa tipologia di poesia, «una prosa virtuale che giace in essenza o in potenza» [5]. Un’arte, insomma, che avvolge i pensieri di bellezza espressiva, che opera con estrema raffinatezza tecnica, sul piano del modo del dire, non sulla materia alla base, che è l’esperienza nel mondo: «solo l’inflessione di una tecnica verbale: quella di “esprimersi” secondo regole più belle, dunque più sociali, di quelle della conversazione» [6]. Il ragionamento decisivo è quello sulla poesia moderna. Questa, secondo B., segna la sua distinzione da quella classica, per un concetto fondamentale: smette di essere attributo della prosa, per porsi come sostanza autonoma dagli altri discorsi. Il rapporto con il linguaggio è sovvertito completamente: esso non è più il terreno in cui intessere l’espressione aggraziata di un pensiero, ma la sostanza stessa della genesi poetica: forma e contenuto insieme, vibrazione di parole da cui scaturisce un sentire e viceversa, in modo che non è vi è più un processo espressivo, ma una sorta di esplosione lessicale assoluta, autonoma. «Nella poetica moderna, al contrario, le parole producono una sorta di continuità formale da cui emana a poco a poco una densità intellettuale o sentimentale impossibile senza di esse; […] La Poesia moderna si oppone all’arte classica per una differenza che comprende tutta la struttura del linguaggio…» [7]. C’è una rivoluzione paragonabile a quella del passaggio dalla fisica classica a quella quantistica: un cambio totale di prospettiva, in cui il linguaggio è liberato e diviene l’energia propulsiva di una rappresentazione di eventi dell’esistere “non volgibili in prosa”. B. sintetizza magistralmente: «I concetti classici sono concetti di rapporti, non di parole: si tratta di un’arte dell’espressione, non dell’invenzione; qui le parole non riproducono, come più tardi, per una specie di violenta e inattesa altezza, la profondità e la singolarità di un’esperienza; sono ordinate in superficie, secondo le esigenze di una economia elegante o decorativa» [8]. La modernità è la rivolta a questa economia, è la liberazione radicale della parola nella sua totalità, lasciata libera di esprimere e soprattutto “inventare” nuovi mondi, in opposizione a un mondo ormai reificato, “prosaizzato”. Il poeta avverte che la verità del vivere non è alla portata delle tradizionali strutture, figlie di un pensiero di dominio platonico del creato. Infatti, la poesia classica – nel pensiero di B. – corrisponde, sul piano gnoseologico, a una natura soggiogata dal logos, data nella sua interezza e consistenza, dove – al contrario – la poesia moderna non crede in questo possesso del mondo, il quale si frammenta e inesorabilmente scivola oltre la portata umana, dandosi nella forma di oggetti isolati, irrelati dalle trame d’ordine razionale, carichi di un’energia inclassificabile a cui la lirica tende, facendosi, in tal senso, oggettiva. Parallelamente l’impianto da metrico/algebrico si fa destrutturato. Si passa da una lirica concepita per la condivisione sociale, a una scrittura singolare, di rivolta e, quindi, marginalizzata. I segni prosodici distintivi del poetico perdono la loro essenzialità, poiché ora la distinzione è di sostanza, risiede nell’istituzione di un “mondo a sé”, di una «Natura chiusa, tale da abbracciare al tempo stesso la funzione e la struttura del linguaggio» [9]. Si indeboliscono i presupposti etici, gli intenti umanistici, i sostegni ideologici. Il poeta canta l’essere che sfugge alla presa del logos. Rivendica, attraverso il suo gesto, una possibilità ontologica cancellata dalla storia. Il suo atteggiamento si fa demiurgico: il linguaggio ricrea il mondo perduto nei discorsi dominanti. La parola è denudata dai velami del pensiero, degradata dai livelli di strutturazione formale, non opera più come significante differenziale all’interno di un discorso, ma si presenta nuda, totemica. Una parola totale che si staglia, appunto, al suo grado zero. Questa visione moderna, questa centralità sostanziale del linguaggio, è entrata, pur nelle molteplici gradazioni stilistiche nel Dna poetico dei nostri giorni. Un approccio che abilita sicuramente registri creativi straordinari, ma che ci lascia al contempo sospesi, inappoggiati in una posizione di cui B. sintetizza perfettamente l’aporeticità, che conduce all’impossibilità stessa di parlare di una scrittura poetica: «Ma quando il linguaggio poetico mette in questione la Natura in modo radicale, col solo effetto della propria struttura, senza ricorrere al contenuto del discorso e senza ricorrere al conforto di un’ideologia, non c’è più scrittura, ci sono solo esempi di stile mediante i quali l’uomo si espone completamente e affronta il mondo oggettivo senza passare attraverso alcuna figura della Storia o della socialità» [10]. Ci sovviene – definitivo – Celan: «La poesia non s’impone più, si espone» [11].


____________________________

[1]  R. Barthes," Il grado zero della scrittura", 1982 (Einaudi) a cura di G. Bartolucci e altri.

[2]  Qui B. fa riferimento al Jourdain nell’opera Il borghese gentiluomo di Moliere. In un dialogo dell’opera, questo personaggio, dopo aver scritto un biglietto galante, interroga un maestro su come arricchirne lo stile.

[3]   R. Barthes, op. cit. p. 31.

[4]   Ibid.

[5]   Ibid.

[6]   Ibid. p. 32.

[7]  Ibid.

[8]  Ibid. p. 33-34.

[9]   Ibid. p.32.

[10] Ibid. p. 38.

[11]  P. Celan, Microliti (Mondadori) a cura di D. Borso, ed. Kindle, Pos. 2047


La lettura di questo articolo è riservata agli abbonati
ABBONATI SUBITO!
Hai già un abbonamento?
clicca qui per effettuare il login.

Commenti

Lascia il tuo commento

Codice di verifica


Invia

Sostienici