Il pendolo di Valéry
Elio Scarciglia, terrazzo del Centro Pompidou, Parigi

Il pendolo di Valéry

diLucio Macchia

Paul Valéry tiene, nel 1927, una conferenza all’Université des Annales, dal titolo «Propos sur la Poésie»[1], in cui, con uno stile diretto e sintetico, delinea i tratti essenziali della sua concezione del poetico. A dominare la trattazione, l’immagine della poesia come pendolo, come moto oscillatorio e perpetuo, contrapposto al cammino lineare e definito della prosa. Valéry opera questo raffronto, avvertendo l’uditorio che si tratta, naturalmente, di una schematizzazione, di una lettura “agli estremi”. Sappiamo infatti che le due modalità di scrittura, soprattutto in epoca moderna e contemporanea, non sono così nettamente distinguibili e, se si insiste in tale confronto, è solo perché esso abilita la possibilità di un ragionamento. La prosa, ci spiega V., è simile al camminare: «La camminata come la prosa ha sempre un oggetto preciso. È un atto diretto verso un qualche oggetto che abbiamo l’obbiettivo di raggiungere». Essa assolve ad una funzione precisa, quella di portaci da un punto all’altro, quella di darci una comprensione su un argomento astratto (per esempio un saggio) o su una tecnica (si pensi a un manuale) o su una situazione immaginata ma vissuta come reale (come nell’ampio mondo della narrativa[2]). Il linguaggio, in questo contesto, è uno strumento che si consuma nell’uso, che si dissolve – potremmo dire – porgendo il concetto: «negli impieghi pratici o astratti del linguaggio che è specificatamente prosa, la forma non si conserva, non sopravvive alla comprensione, si dissolve nella chiarezza, ha agito, ha fatto comprendere, ha vissuto». Veniamo ora alla poesia. Se il gesto della prosa è il camminare, quello che V. assegna alla poesia è il danzare: «un sistema di atti, che però hanno il loro fine in sé stessi. Non va da nessuna parte. E se persegue qualcosa, non è che un oggetto ideale, uno stato, una voluttà, una gratificazione, o qualche rapimento di sé, un eccesso di vita, una vetta, un punto supremo dell’essere…». Non, quindi, un movimento che si possa risolvere nella comunicazione di concetti, ma qualcos’altro. Cosa? Il tentativo di “trattenere” e “ricreare”, con l’ausilio del linguaggio, istanti di pienezza vitale, di intensità esistenziale, che non trovano possibilità di espressione nel discorso organizzato della prosa: la restituzione di questo vissuto «al di fuori delle condizioni naturali dove si produce spontaneamente, con il mezzo degli artifici del linguaggio». In questo illuminante passaggio ritroviamo il Valéry in “camice bianco”, il teorico di una poesia costruita intellettualmente a partire da certi stati d’animo e vissuti personali, come frutto della collaborazione tra «l’essere istantaneo» e «l’essere ingegnoso e sagace». Se ne può trarre una preziosa lezione sullo scrivere poetico: non confondere la durata epifanica dell’attimo e quella estensiva della produzione lirica. Ma torniamo al movimento del poetico, alla danza che non va da nessuna parte, ma s’incentra in sé stessa, in un modo “irriferito”, aconcettuale. Per essa Valéry – genialmente – costruisce l’allegoria del pendolo. Un moto oscillante, una vibrazione perpetua tra due punti: da un lato la forma (l’uso particolare del linguaggio) e dall’altro il senso (quella istanza esistenziale da cui il gesto poetico si è sviluppato). Inizialmente il movimento è simile a quello del linguaggio “ordinario”: dalla forma verso il senso, ma poi avviene «…ad ogni verso, che il pendolo pieno di vita sia riportato al punto di partenza verbale e musicale. Il senso che si propone trova per solo esito, per sola forma, la forma stessa dalla quale procedeva. […] Questo scambio armonico tra l’impressione e l’espressione è ai miei occhi il principio essenziale della meccanica poetica…». L’arte poetica si presenta, quindi, come un’ipnotica oscillazione, in cui la linearità dell’asserzione lascia spazio alla ciclicità della suggestione[3]. In questa dinamica, il linguaggio, al contrario della prosa, non conosce consunzione. Non porgendo mai il concetto in modo conclusivo, ma continuando ad oscillare tra forma e senso, che s’inseguono in uno slittamento ininterrotto, senza la possibilità della chiusura definitiva sull’oggetto, la parola rimane inconsumata. La poesia non offre che il suo perpetuo danzare. E questo danzare è incentrato sul tentativo di far rivivere l’intensità di momenti esistenziali che sarebbero in sé stessi ineffabili, di convocare l’essere in un rapporto immediato, corporeo con il lettore: la poesia «mira a provocare o a riprodurre l’unità e l’armonia della persona viva». Così il poeta gioca con l’impossibile e la paradossale problematicità del suo compito risiede nel dover egli utilizzare – come ci fa osservare V. – il medesimo linguaggio della prosa, non esistendo, per l’arte poetica, un altro linguaggio (qualcosa che sia, come per la musica, un codice dedicato: alfabeto di note e autonoma legge di armonia). Al poeta è assegnato lo stesso linguaggio con il quale si urla negli stadi e nei mercati, con il quale si fa tecnica ed economia, lo stesso della chiacchiera di heideggeriana memoria: «il destino amaro e paradossale del poeta gli impone di utilizzare la produzione dell’uso corrente e pratico a fini eccezionali e non pratici». In queste condizioni, e con questi mezzi, il poeta tenta di costruire il suo prezioso artefatto oscillante, moto perpetuo dell’anima, e farlo risuonare – senza certezza alcuna – alle frequenze del più intenso vissuto. Vissuto tanto ricco e autentico, quanto sfuggente e intrattenibile. E proprio per questo ancor più meritevole – così ci sembra, così sentiamo – di un tale tentativo.

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[1] A proposito della poesia. Per la stesura di questo articolo, ho potuto attingere dal testo tradotto in italiano contenuto nel libro Necessità di poesia (Spider&Fish, 2020) curato da P. Imperio, che raccoglie una serie di saggi di Valéry. Tutte le citazioni in caporali sono tratte da quel testo.

[2] Naturalmente il campo in cui la prosa agisce è ben più vasto degli esempi riportati. Inoltre, per la letteratura in prosa, vale fortemente quanto già chiarito, ovvero che la rigida distinzione dalla poesia è solo una semplificazione utile per la trattazione, essendo la prosa letteraria spesso innervata di poesia.

[3] Si veda, a questo proposito l’articolo Poesia e suggestione.


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