L'esilio della poesia
Elio Scarciglia, Matera, particolare portale della Cattedrale

L'esilio della poesia

diLucio Macchia

Maria Zambrano ha scritto pagine intense sul rapporto tra poesia e filosofia, dove i due termini vanno intesi nella loro massima estensione. Da una parte la filosofia come scelta, nella cultura occidentale, di un affidamento al logos argomentativo-razionale, che fonda il metodo di pensiero, e dunque la scienza e, di conseguenza, il dominio della tecnica. Dall’altra, la poesia e quindi l’arte in generale, che sviluppa, con il mondo, un rapporto completamente diverso. È proprio in questa diversità che si incentra la riflessione della Zambrano, che ci fa osservare come il pensiero filosofico, nel suo atto fondativo platonico, sia uno stupore, una meraviglia verso le cose, che immediatamente si traduce in una violenza su di esse, perpetrata con un atto di astrazione che le strappa al loro essere originale, incapsulandone in “idee”, e inaugurando così quel cammino del pensiero occidentale inscritto nella cifra costante del concetto che sopravanza il mondo, che domina la natura, che percorre «con sforzo il cammino in salita che porta dal semplice incontro con l’immediato a ciò che è permanente, identico, Idea»[1]. Così l’uomo occidentale ha barattato un rapporto con le cose pieno e autentico, ma anche incerto e sfuggente, con il solido edificio del logos filosofico. Sentendosi “dionisiacamente” irretito dalle forze della natura, si è voltato altrove. Ha “ucciso le cose” (in senso rilkiano [2]). Ne ha lacerato la presenza piena. E ha ottenuto, in premio, il dominio sul mondo. La cruciale battaglia tra questi due poli dell’esistenza, tra filosofia e poesia, si è svolta nel corpo dell’opera di Platone, che palpita di figure e suggestioni poetiche [3] ma nella quale, quando si tratta di edificare la città, la Repubblica, quando si tratta del “concreto”, delle “cose serie”, viene stabilito l’esilio della poesia: «devi sapere che in fatto di poesia bisogna accogliere in città soltanto inni agli dèi ed encomi di uomini virtuosi; se invece accoglierai la Musa corrotta della poesia lirica o epica, nella tua città regneranno piacere e dolore invece che la legge [4]» perché, come detto altrove, «il poeta imitatore crea in privato una cattiva costituzione nell’anima di ciascun individuo, compiacendo la sua parte irrazionale […] fabbricando parvenze illusorie e rimanendo assai distante dal vero». [5] Il poeta che sceglie di rimanere aderente alle cose, alla “verità immediata”, è accusato di esserne distante. Perché la verità è fondata, dal logos filosofico, non presso le cose, ma negli altrove del concetto. Il poeta si rivolta a questo approccio: «Alcuni di quelli che hanno sentito la loro vita sospesa, la loro vita irretita dalla foglia o dall’acqua, non hanno potuto passare al momento successivo in cui la violenza interiore fa chiudere gli occhi cercando altre foglie o altra acqua più vere» [6]. Questa ultima citazione della Zambrano è di una bellezza sconvolgente, ed essa stessa poetica. La sintesi è perfetta: chiudere gli occhi di fronte a una foglia, per traslare all’immagine mentale di quella foglia, che assurge a realtà più reale, a verità più vera. E così il pensiero sovrascrive la vita, la dimentica. La poesia continua a urlarla, esiliata ai margini della città, monito costante di quella lacerazione che ci investe nostalgicamente. Certo, si potrà obiettare, anche la poesia frequenta il pensiero, anch’essa deve distaccarsi da un dionisiaco rapporto col mondo, per poter essere. Questo è indubitabile, e non sfugge all’analisi della Z. che ne marca la differenza: «il logos della poesia è di fruizione immediata, quotidiana; quotidianamente scende nella vita, tanto quotidianamente che a volte si confonde con essa». [7]  Il gesto che il poeta compie mantiene un coinvolgimento in cui egli stesso si lacera per non lacerare il mondo. A questo proposito risuonano le parole di Lacan sul poeta che «si produce perché è mangiato dai versi»[8]. Il poeta non rimuove la lacerazione, non la trasla in mondi iperuranici, ma tenta di resistere all’orlo delle cose, di produrre una verità pienamente collegata ad esse: «Il poeta, innamorato delle cose, vi si attacca, si attacca ad ognuna di esse e le segue attraverso il labirinto del tempo, del mutamento, senza poter rinunciare a nulla…» [9]. Ancora stupende le parole della Z. nella loro capacità di evocare il senso del gesto poetico che, proprio per la natura contraddittoria del suo muovere, per la precarietà del suo porsi, giunge ad esiti che non possono competere con la saldezza e il dominio filosofico. E così, la poesia perde la partita. E così, viene esiliata dalla città. «Il cammino della filosofia è più illuminato, più certo […] ha conquistato qualcosa di stabile, qualcosa di talmente autentico, compatto e indipendente che è assoluto, che su nulla poggia, mentre tutto viene ad appoggiarsi su di esso» [10]. Ci troviamo di fronte al paradosso fondativo della nostra cultura: il dominio sul mondo è “inappoggiato” ma, proprio per questo, funzionale alla produzione di un progressivo potere sulla natura. Dove, invece, il poetico produce una sua unità così precaria e delicata, proprio perché appoggiata alle cose, una unità «sempre incompleta […] Ne deriva quel tremore che permane dietro ogni poesia riuscita e quella prospettiva illimitata […] quello spazio aperto che sempre circonda la poesia» [11]. Il mondo della tecnica, del dominio sulla natura, della chiusura concettuale, non tollera questa tremolante tensione all’aperto e così la poesia, come già detto, è posta ai margini e “ammessa in città” soprattutto come prodotto dell’industria culturale, come istanza “emotiva”, come “stile”, nella rimozione radicale del senso originario di quel canto che – nella meraviglia – voleva “soltanto” dire le foglie, dire l’acqua.


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[1] M. Zambrano, Filosofia e poesia, trad. di L. Sessa, Pendagron (2018) p. 40

[2]   Ci si riferisce alla famosa lirica Io temo tanto la parola degli uomini

[3] Si pensi al dialogo Ione in cui è la poesia è descritta come frutto di ispirazione divina e il poeta come vate: «è proprio il dio che parla e per mezzo di questi poeti ci fa sentire la sua voce» [da Ione, 534d, nel volume citato nella nota successiva]

[4]   Platone, Tutte le opere, a cura di E.V. Maltese, ebook Newton Compton (2013), da Repubblica 607a

[5]   Ibid. 605b e 605c

[6].  Zambrano, op. cit. p.40

[7].  Ibid. p. 45

[8]  La citazione lacaniana è tratta da A. Pagliardini, Lacan al presente, Galaad edizioni (2020) p. 67, in cui l’autore precisa il doppio senso della parola vers in francese che significa sia versi che vermi.

[9]  Zambrano, op. cit. p. 42

[10]  Ibid. p. 41

[11]  Ibid. p. 44



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