La parola oscura
Opera di Edoardo De Candia

La parola oscura

diLucio Macchia

Il mondo vuole parole chiare. Vuole discorsi piani, comprensibili, oggettivi. E ciò ha perfettamente senso, dal momento che non si può “edificare la città” (come metafora di ogni realizzazione tecnica) senza disporre di categorie di pensiero e di linguaggio che siano adeguate a dominare la natura, comprendendone le leggi di funzionamento, manipolandone le dinamiche, progettando e organizzando le attività necessarie per la prosperità umana. Un pensiero di questo tipo deve liberarsi dai legacci con l’oscurità, con la dimensione celata della vita, deve ragionare “come se” tutto fosse nella disponibilità umana. Questo atteggiamento ha senz’altro una sua necessità, e risulta straordinariamente efficace sul fronte della tecnoscienza. Esso, però, presenta un risvolto problematico, costituito dalla sua assoluta pervasività, dal suo tirannico dominio culturale che conduce a un logos raziocinante che svuota ogni cosa di mistero, facendone oggetto di una presenza demitizzata, disincantata: completamente “in chiaro”. In termini heideggeriani, il risultato di tale dominio è che oggi le cose non sono altro che enti spogliati dall’essere. Come sintetizza Galimberti, attraversando il pensiero di Jaspers e Heidegger: «L’incontro quotidiano con le cose oggi avviene sotto la categoria vincolante dell’utilità, il senso delle cose dipende dalla loro rispondenza all’utile, sull’utile viene misurata e definita la loro essenza. […] La domanda utilitaristica fonda quella serie di rimandi che collegano le cose tra loro. Le piantagioni della foresta servono per costruire imbarcazioni, le imbarcazioni per trasportare e per pescare, il trasporto e la pesca per appagare altre catene utilitaristiche che, ricollegandosi ad altre utilità, confluiscono tutte insieme verso quell’unico soggetto interpretante che è l’uomo»[1]. Che ne è del linguaggio in questo contesto? Esso non ha altra funzione che quella dell’espressione di un pensiero calcolante in cui domina la «prepotenza della ragione, per la quale non esistono problemi che non possano essere discussi in modo piano e ragionato o sottoposti a sondaggi d’opinione; non esistono parole cariche di un senso loro proprio e specifico che non siano traducibili nel linguaggio corrente della comunicazione strumentale, non esiste la solitudine dell’individuo che, con il suo linguaggio pregno di sensi e di significati privati, possa porsi contro e oltre la sua società»[2]. Di tutto si può conversare, perché di tutto è rimasto nulla, e questa parola svuotata e neutra, è il corrispondente semiotico di un pensiero totalmente ridotto a strumento tecnico. In questo contesto, la parola poetica risulta immediatamente “oscura”: ne viene respinto, se non ridicolizzato, il procedere non pragmatico, non assimilabile alle strutture portanti del discorso della ragione. La sua irriducibilità alla ragione stessa, il permanere sulla pagina di uno “scarto” ineliminabile, non viene facilmente perdonato, eppure questa è la natura più preziosa del discorso lirico. La sua insistenza nel mantenere un’apertura sulle cose, al di là della riduzione e della violenza apportate dal pensiero raziocinante. L’oscurità permea il poetico e ne suggella il senso esistenziale, come discorso della pienezza perduta, della sacralità cancellata, che articola il suo dire in una modalità che non s’accomoda al pensiero dominante. Il senso comune, di fronte all’espressione poetica, sembra “mormorare” come i discepoli evangelici: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?»[3]. Questa “durezza” è il segno di una prossimità alla verità. Non una verità oggettiva, come quella agitata dalla ragione scientifica. Una verità certamente precaria, fragilissima, ma ostinata nel mantenere un legame non reciso, non brutalizzato, con le cose. È la durezza misteriosa della terra, di quel suolo, «Boden, come fondo del nascondimento in cui è custodito il mistero dell’essere e da cui sorge la verità come apertura»[4], che il rischiaramento radicale del pensiero calcolante ha cancellato andando a sopprimere ogni altrove, e ponendo a repentaglio il senso stesso dell’umano: «Là dove ogni nascondimento è dissolto perché tutto è dispiegato, il pensiero è alla fine e con lui la sua storia, che di ogni Boden ha fatto un Grund, di ogni fondo nascosto un fondamento esplicativo»[5]. Paul Celan si è spesso confrontato con la dimensione lirica dell’oscurità, rivendicandone il carattere insopprimibile, consustanziale al dire poetico: «La poesia è in quanto poesia oscura»[6]. La poesia non è oscura per un accidente stilistico: lo è essenzialmente, in quanto discorso “altro”. La filigrana del suo valore è un’ombrosa trama. E solo da essa può sorgere qualcosa, può avviarsi un percorso di comprensione che non è “messa in prosa”, non è rischiaramento, ma si inscrive nel suo stesso mistero: «la poesia vuol essere compresa, vuole proprio perché è oscura essere compresa: come poesia, come “buio poetico”»[7]. E a un altro “microlito” celaniano affidiamo la conclusione di questo breve ragionamento sull’oscurità lirica. È un frammento che meravigliosamente ci porta a una sintesi, ci offre un’apertura: «Si lasci alla poesia il suo buio; forse – forse! – essa produrrà, quando quel bagliore, che già oggi le scienze esatte sanno mettere davanti agli occhi, avrà mutato radicalmente il genotipo umano – forse essa produrrà proprio per tale ragione l’ombra in cui l’uomo si ricorderà del suo esser uomo»[8].

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[1] U. Galimberti, "Il tramonto dell'Occidente: Nella lettura di Heidegger e Jaspers. Opere I-III", Feltrinelli (2017) – edizione Kindle, Pos. 451.

[2] Galimberti, op. cit., Pos. 9809.

[3] Vangelo di Giovanni 6, 60.

[4] Galimberti, op. cit., Pos. 8273 (il termine Boden rimanda al pensiero jaspersiano).

[5] Galimberti, op. cit., Pos. 12046.

[6] P. Celan, Microliti (Mondadori) a cura di D. Borso, ed. Kindle, Pos. 1548.

[7] Ibid.

[8] Celan, op. cit., Pos. 1598.



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