La poesia come disvelamento
Alberto Cini - Sarà regina

La poesia come disvelamento

diLucio Macchia

Il “disvelamento” già etimologicamente implica una velatura, un nascondimento. È parola che, nella sua stessa struttura, contiene un movimento: l’atto del sollevare il velame, evocante una tensione alla verità come attraversamento dell’ambiguo, del mistero. Riecheggia il pascaliano “Deus absconditus” (che, a sua volta, riprende un celebre passo biblico di Isaia). L’essere è nascosto, mai rivelato in modo evidente ai sensi e alla ragione. In tale direzione, Heidegger riprende il concetto introducendo e enfatizzando l’etimologia della parola greca alétheia, che lui propone appunto come “svelatezza”, a evocare una verità mai stabilmente data ma sempre arretrantesi, sfuggente. Cogliere la matrice delle cose, sentirne pulsare l’essere che le irradia, è un gesto di disvelamento, un tendersi all’afferramento d’una realtà nascosta dietro la visione “oggettuale” del mondo. Oggi siamo immersi in una cultura della tecnica che reifica ogni ente: la natura, noi stessi, il nostro corpo, il nostro agire. Tutto tende ad essere inquadrato secondo le categorie dell’utile e della produzione. Costantemente corriamo il rischio di rappresentarci come esseri-macchine in un universo meccanicistico, dove organizzare le nostre vite, i nostri stessi pensieri, secondo schemi efficientistici, lungo un asse temporale cartesiano, freddamente lineare, che ha perduto il senso incantante del singolo istante, della sua intrinseca ciclicità. Perché il tempo stesso ha subito questo processo di reificazione. Esso stesso esposto costantemente alla perdita, in uno scorrere insensato, obliato e obliante. Programmare la propria vita, avere obiettivi, controllare se stessi e il proprio ambiente. E così scivolare sulla superficie dell’esistenza. Un permanere inautentico, in cui è negata la possibilità della rivelazione di qualunque altrove. Rilke lo ha detto - meglio di ogni filosofia - in alcuni suoi famosi versi: “Io temo tanto la parola/ degli uomini. / Dicono tutto sempre così chiaro:/questo si chiama cane e quello casa/…/ Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani. /A me piace sentire le cose cantare./Voi le toccate: diventano rigide e mute./Voi mi uccidete le cose.”. In un mondo di “cose uccise”, la poesia tenta un dialogo con le cose stesse, protesa a dischiuderne la vita, affinché tornino a “cantare”. Questa è la quintessenza del gesto poetico (e artistico, in generale). In questo sguardo disvelante si snoda la danza dell’arte, che non si arrende al gioco freddo e macchinale che il mondo va facendo con le cose, ma impone di fermarsi, di guardarle davvero. Non rinuncia, non si ritrae, di fronte a quel richiamo tanto incisivo, quanto ambivalente. Non si astiene dal dire. Un gesto, un tentativo, che non ha appoggi, non ha giustificazioni di metodo, se non in se stesso, e non si conclude mai con una “presa” definitiva. Il disvelamento non è azione che si possa chiudere, che produca un risultato “a tutto tondo”. Un “output” misurabile che ne giustifichi l’azione. Al contrario, è sempre apertura a nuovi stupori, a ulteriori nascondimenti. Non perviene ad alcuna definitezza. Non fornisce risposte nel dominio della logica. Celan ci folgora: “non separare il no dal sì”. Perché – semplicemente – non è possibile farlo nell’autenticità dell’essere: il linguaggio qui perde ogni conforto sillogistico, consola ma non convince, mostra ma non dimostra. Indica la vita nella sua totalità che resiste a ogni riduzione. A ogni “esprit de géométrie”. Ho incontrato, più intensa che mai, questa tensione a cogliere un altrove, su un famoso prato della letteratura. Siamo nelle ultime pagine di “Gita al faro” di Virginia Woolf. La scena che si presenta ai nostri occhi è quella di una pittrice – Lily Briscoe, il nome di questo personaggio – intenta a dipingere un quadro paesaggistico. Ma il suo paesaggio non è un “oggetto”, un qualcosa di semplicemente collocato di fronte a lei (ob-jectum, posto innanzi, ci evidenzia ancora Heidegger), come una cosa definitivamente data e quindi riproducibile. Costituisce invece, per lei, l’enigma dell’essere. E dipingere è un tentativo di cogliere ciò che lei sente lì, presente ma velato, proteso eppure celato. E il tentativo, questo sporgersi autentico, è il senso del gesto: "Guardò il quadro. […] – «tu» e «io» e «lei» siamo esseri transitori; nulla permane; tutto muta; ma non le parole, non la pittura. Sarebbe comunque finito in soffitta, pensò; o sarebbe stato arrotolato e ficcato sotto un divano; ma anche in quel caso, anche per un quadro come il suo, era vero. Perfino di quello scarabocchio, non dell’opera in sé, forse, ma di ciò che tentava, era lecito dire che «sarebbe rimasto per sempre»”. Il discorso poetico si presenta, quindi, a noi come sguardo pieno: resistenza alla tentazione dello scivolamento nella chiacchiera e nel senso comune del quotidiano, per protendersi ancora ad abitare un altrove ineffabile, che la parola poetica evoca, affondando l’espressione nella carne viva del linguaggio: “correre il rischio, tracciare quel segno” scrive ancora la Woolf in un altro passaggio. Questo prodursi, questo “tracciare segni”, nel tentativo di dare alle cose parola, è la poiesis poetica che si contrappone alla produzione come incessante, alienante fare del mondo. È recupero - accanto alla dimensione pratica - di uno sguardo altro, che è quello che ci re-umanizza, ci salva dall'immolazione reificante a uno dei tanti Moloch della vita quotidiana. Qualche pagina dopo, su quello stesso prato, la Woolf illumina il pensiero del suo personaggio con un lampo di genialità dove troviamo – per ciò che stiamo dicendo e che, in fondo, è indicibile - una possibile collocazione, una raffigurazione potentemente pittorica, in cui le istanze del pensiero filosofico e artistico convergono, nel miracolo che, a volte, il discorso culturale autentico riesce a creare. Parole che, credo, s’impongano come la chiusa ideale di questo brevissimo excursus nel discorso poetico come atto disvelante: "Bisogna continuare a guardare senza attenuare neppure per un attimo l’intensità dell’emozione, il proposito di non farsi distrarre, di non lasciarsi ingannare. Bisogna tenere la scena – così – in una morsa e impedire che qualcosa vi entri e la sciupi. Uno doveva, pensò intingendo risolutamente il pennello, essere al livello dell’esperienza ordinaria, sentire semplicemente quella è una sedia, quello è un tavolo, però anche, è un miracolo, un’estasi.".

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