La terza via al linguaggio
Ivor Prickett, La madre di Tengo Inalishvili prepara una pasta piccante di peperoncini secchi nella casa della famiglia Inlaishvili nel villaggio di Rechxi, 2010, Rechxi, Abkhazia

La terza via al linguaggio

diLucio Macchia

La lettura di Cioran è l’occasione preziosa per una riflessione sull’atteggiamento umano verso il linguaggio, ovvero verso le cose, verso la vita stessa, poiché il linguaggio permea il nostro stare al mondo, il nostro pensare, il nostro stesso essere. Riassumo il pensiero cioraniano, lo “forzo”, per amor di schema e per chiarezza espositiva, in tre “tipi umani”, rappresentativi di altrettanti modi di porsi di fronte alla parola. Il primo tipo è “l’uomo comune”, ovvero «chi, riposando in mezzo alle parole, ci vive ingenuamente […] come se corrispondessero alla realtà stessa o fossero un assoluto sparso nel quotidiano[1]». Il vero ingenuo probabilmente neanche comprende questa frase: cos’altro dovrebbero essere le parole? Accettarle senza metterle in questione, vuol dire vivere in un mondo ordinato, in cui le cose stesse, come i loro segni, rimangono nella nostra disponibilità. Non celano ambiguità, non aprono a invisibili. È il «linguaggio utilitario[2]», in cui le parole sono etichette sulle cose, e delle cose si dispone come oggetti puri e semplici. Come insegna Valery, tutto questo si regge su un atteggiamento inconsapevole, in cui si trascorre velocemente sulle parole, senza soffermarsi. Soffermarsi sulla parola spalanca abissalità. Poiché, al di sotto di essa, si avverte la presenza di un oggetto imprendibile, che scivola incessantemente. Come ho sottolineato altrove[3], dato che noi stessi siamo immersi nel linguaggio (che ci pervade, ci costituisce) ciò si trasforma in un paradosso che ci investe in pieno, ci trasporta in una dimensione di Unheimliche (perturbante), in cui la parola è avvertita in modo ambivalente: familiare, rassicurante, nel nostro possesso; ma, allo stesso tempo estranea, minacciosa, inafferrabile. Lo sappiamo, nella nostra quotidiana esperienza. Guardiamo un albero: lo sguardo teso e autentico, lo sguardo accogliente, scorge in esso la chiamata a dire e, insieme, l’impossibilità di un pronunciamento compiuto[4]. Basta uno sguardo consapevole a mandare in pezzi la concezione ingenua-utilitaria del linguaggio. Si apre uno squarcio, una ferita insanabile nella percezione fattuale e pacifica del mondo. In quella ferita abita il nostro secondo tipo: “lo scettico”. Lo scetticismo sul linguaggio porta a percepirne la vacuità, l’impotenza, la natura di gioco insensato: «Il disagio che suscita in noi il linguaggio non differisce molto da quello che ci ispira il reale; il vuoto che intravediamo nel fondo delle parole evoca quello che cogliamo nel fondo delle cose: due percezioni, due esperienze nelle quali si opera la disgiunzione tra oggetti e simboli, tra la realtà e i segni»[5]. Lo scettico si posiziona in questo atteggiamento critico, razionalmente inattaccabile: il suo movimento dona sicuramente un senso di libertà. Le parole sono svelate nel loro inganno, decostruite, depotenziate. Ma questo movimento del pensiero, al contempo, disincanta il mondo, stabilisce l’imperio del nulla, del non-senso. Allo scettico resta di passeggiare tra le macerie di un linguaggio che ha trascinato, nella sua caduta, il mondo intero. Rimane la possibilità del gioco linguistico, del disincanto culturale, del sofisma. Tra questi due estremi, tra l’ingenuità dell’uomo comune e la scepsi metodica e distruttiva dello scettico, si snoda il cammino dell’espressione artistica. Eccolo il terzo tipo, sicuramente il più assurdo, il più complesso. È il poeta. La poesia è il librarsi impossibile tra la sponda del senso comune e quella del decostruzionismo scettico. Il poeta, pur percependo l’abisso della parola, vi si oppone oppure, per dirla heideggerianamente, vi si lascia cadere per trovarne un sostegno impensato. Il poeta muove da un atto di fede verso il linguaggio. Crede, anzi sa, che può, in esso, tramite esso, riconciliarsi con il mondo. Salvarsi. Il suo atteggiamento si radica in un pensiero di tipo religioso: “non sente ragione”, non accetta il piegamento all’utile e neanche la de-sacralizzazione della parola. «Il poeta giudica diversamente: prende il linguaggio sul serio, ne crea uno a modo suo. Le sue originalità nascono tutte dalla sua intolleranza per le parole così come sono. Incapace di sopportarne la banalità e l’usura, è predestinato a soffrire a causa di esse e per esse; ed è tuttavia per loro tramite che tenta di salvarsi […] Voler rinvigorire le parole, infondere loro una nuova vita, presuppone un fanatismo, una obnubilazione fuori del comune: inventare – poeticamente – significa essere un complice e un appassionato del Verbo, un falso nichilista…»[6]. Questo è l’atteggiamento che C. chiama “demiurgia verbale”, nei confronti del quale l’atteggiamento di C. stesso è aporetico. Ne ravvede scetticamente il carattere fideistico, quasi esaltato, ma, nello stesso tempo, è sedotto dall’anelito salvifico, dalla concreta possibilità consolatoria: alla poesia «siamo noi che domandiamo di liberarci dalla oppressione, dai tormenti del discorso. Se vi riesce, è la poesia a essere per un istante la nostra salvezza»é7*. C. non scioglie la sua aporia, ci lascia con questa idea del poetico come “finzione” a cui si decide di aderire, come “fede vantaggiosa”, liberatoria rispetto alla nullificazione apportata dal linguaggio corrente o dal suo radicale svilimento. In queste parole pulsa tutto il dissidio interno alla cultura occidentale: questo protendersi a un atto magico, orfico della parola, ma allo stesso tempo avvertirne l’insensatezza. In questa complessa dialettica, C. pone comunque il tema della salvezza, e, in qualche modo, indica un senso esistenziale del poetare. Possiamo forse spingerci a dire che vi è un implicito avvertimento: per assolvere a una “funzione salvifica”, il poetare non può ridursi a gioco linguistico, a didascalia, ad artificio intellettuale, a sperimentazione avanguardistica. Questi atteggiamenti, infatti, a ben vedere, sotto la loro patina di brillantezza, non fanno che esprimere e declinare – in modi differenti – la voce dello scettico, rifletterne la sua disperata incredulità verso il linguaggio. Verso la possibilità di un mondo re-incantato, fosse pure per un istante.

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[1] E.M. Cioran, La tentazione di esistere, trad. di L. Colasanti e C. Laurenti (Adelphi, 1984), p. 178

[2] Ibid. p. 180

[3] Si veda il mio articolo L’abisso della parola

[4] Si veda il mio articolo L’albero e il linguaggio

[ 5] Cioran, ibid. p. 179

[6] Ibid. p. 180

[7] Ibid. p. 181


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