Lirica e contenuto
Elio Scarciglia, Venezia, 2022

Lirica e contenuto

diLucio Macchia

Un aneddoto racconta del pittore Degas e del poeta Mallarmé. Degas si cimentava, talvolta, anche nella scrittura di poesie e, a tal proposito, ebbe a lamentarsi di una sua difficoltà compositiva: un eccesso di idee che interferiva con la composizione lirica. La risposta di Mallarmé fu secca: «i versi non si fanno con le idee, ma con le parole»[1]. Questa affermazione sintetizza magistralmente l’intera poetica della “poésie pure”: il gesto poetico è un puro affidarsi alla magia del linguaggio, alla sua autonoma capacità di evocare fluttuazioni impalpabili dell’essere. Il contenuto è spesso ridotto a oggetti quotidiani, o comunque puramente pretestuosi per la composizione, o a soggetti totalmente fantasiosi, concepiti con il medesimo scopo. Valery, esponente di “seconda generazione” della poesia di stampo mallarmeano, dirà: «i miei versi hanno il significato che gli si dà» [2]. È, questa, una tendenza estrema della poesia moderna, e non ne rappresenta certamente tutti i molteplici approcci, ma questa vena di scivolamento in secondo piano del contenuto, a favore di un protagonismo della parola, attraversa tutta la modernità. Il linguaggio, non la cosa, è heideggerianamente, la “casa dell’essere”. Fa sorridere il famoso enunciato di poetica manzoniana «l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo». Nell’epoca moderna il vero e l’utile sono categorie positivistiche, appannaggio della tecnica e delle sue procedure riduzionistiche. Il vero che attiene al poetico è quello complesso, indefinibile, in bilico tra filosofia del sospetto, e precipizio nella soggettività. Quanto all’interessante, esso attiene ad una visione di intrattenimento che la poesia rifiuta. Non si tratta più di “cantare le gesta”, di celebrare il mondo, ma piuttosto di una rivolta al mondo reificato dalla tecnica. Si tratta dell’espressione della lacerazione esistenziale, della solitudine nella società piegata alla fabbricazione e al consumo. L’interessante è sostituito dall’oscuro, dallo straniante, dall’ambivalente. La poesia si concentra sulla parola: «le energie artistiche si trasferiscono quasi completamente nello stile» [3] poiché il contenuto, che non può più essere rintracciato nel mondo reificato, deve essere re-inventato a partire dalla parola, dal mistero della sua consustanzialità con l’umano. Ma tutto questo determina effettivamente l’annullamento del contenuto? La risposta a questa domanda non può essere che “no”, per la ovvia constatazione che ciò è impossibile. Un discorso – e la poesia è comunque discorso – inevitabilmente trascina con sé e in sé degli aspetti di contenuto. Con le parole di Adorno: «gli elementi contenutistici di cui nessuna configurazione linguistica, nemmeno la poésie pure, è capace di liberarsi completamente, avranno bisogno dell’interpretazione quanto i cosiddetti elementi formali» [4]. Tutto questo apre una prospettiva estremamente problematica, poiché il contenuto non viene comunque più offerto “a tutto tondo”, non è più riferibile. Friedrich osserva che Goethe poteva parlare della poesia di un suo contemporaneo riferendone il contenuto, pur perdendo, naturalmente, in tale descrizione, la bellezza dell’espressione poetica. Ma era possibile comunque intendersi, in qualche modo raccontare le “idee” contenute nel brano, quelle idee di cui parlava Degas. Nella modernità ciò diviene impossibile, proprio perché il contenuto, pur presente, appare in secondo piano, come un fondale marino attraverso le fluide vibrazioni del linguaggio. Sì, certo, si rintraccia un tema in una composizione. La guerra, per esempio, o l’amore, o la nostalgia. Ma l’espressione filtra attraverso movimenti linguistici che evocano realtà indicibili rispetto a ciò che comunemente si potrebbe dire o pensare su quel tema poiché, se così non fosse, la poesia stessa potrebbe essere rappresentata dalla sua parafrasi, questo orrendo esercizio autoptico sulla scrittura poetica, che i lirici moderni sembrano voler deliberatamente sabotare con ogni verso. Un esempio, nella modernità, di poeta “di contenuto” è quello di Rilke. Le «Elegie duinesi» sono una sorta di lirica filosofica sulla condizione umana. Davvero arduo qui asserire che il linguaggio la faccia da padrone. Eppure, anche in questo caso, è così. Le meravigliose architetture poetiche di Rilke non sono “smontabili”. Reggimenti di esegeti si sono impegnati su di esse, ma la loro meraviglia consiste esattamente nel passarci dei concetti non dicibili in termini razionali, incapsulandoli in espressioni linguistiche, in immagini poetiche, in cui il contenuto non è mai liberabile dal linguaggio. Se così non fosse, se si potesse dire cosa Rilke pensa, allora cesserebbe la poesia. Ecco un esempio tratto dall’ottava elegia, in cui è mostrato perfettamente il gesto rilkiano: «Noi non abbiamo mai, / nemmeno per un giorno, lo spazio puro / innanzi a noi, in cui si aprono i fiori / senza fine. È sempre mondo e mai / un nessun luogo senza no: il puro, / insorvegliato, che si respira e si sa / all’infinito, e non si desidera». Quando il contenuto predomina, tiranneggia lo scritto, allora diviene isolabile, e il linguaggio, corrispondentemente, passa in secondo piano, scade a medium comunicativo. Un “messaggio” viene “comunicato”, secondo uno schema tipicamente tecnico, in cui la scrittura si fa didascalica, come è comune in tanta produzione poetica di consumo. Contenuti offerti in bella forma. Poesie di buoni sentimenti, poesie da cioccolatini, ma anche poesie “impegnate” ad asserire un’idea, piuttosto che a schiudere le possibilità del linguaggio. Asservite ad altro, “tecnicizzate”, ricondotte alla dimensione manzoniana “utile/vero/interessante”, rappresentabili dalle loro parafrasi. Anche se ci spostiamo su un autore dell’avanguardia anti-simbolista, come Caproni, che segna il ritorno a una espressione più quotidiana, depotenziando il soggettivismo lirico, troviamo comunque che tutto viene fatto attraverso il linguaggio, persino quando se ne denuncia la debolezza: «vuoto delle parole / che scavano nel vuoto vuoti / monumenti di vuoto». Nella poesia autentica il contenuto è talmente innervato di forma espressiva da resistere ad ogni tentativo di separazione. Il contenuto è linguaggio, e il linguaggio è contenuto. Fuori da questa identità si precipita o nel delirio di un linguaggio vuoto, o nella didascalia di un linguaggio svuotato. In entrambi i casi, la poesia è perduta. 

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[1] L’aneddoto è riportato in H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Garzanti 2002 (prima edizione originale 1956) da una fonte di Valery

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] T.W. Adorno «Discorso su lirica e società» (testo tratto da una conferenza del 1957) citato da A. Berardinelli nel suo saggio «Le molte voci della poesia moderna», pubblicato in appendice al testo di Friedrich

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