L’esperienza dell'arte: accostamento, consolazione, nostalgia
Elio Scarciglia - Spettacolo di Fado - Lisbona

L’esperienza dell'arte: accostamento, consolazione, nostalgia

diLucio Macchia

L’arte si è travestita, nel corso dei secoli, assumendo di volta in volta funzioni decorative, celebrative, moralistiche, civili e religiose, perché, fino a tempi molto recenti, non le è stato concesso uno spazio di vita autonomo. L’idea di “arte per arte”, di pura e libera espressione, è propria – tutto sommato – della più recente modernità. Parte di questo travestimento è costituita – semplificando – da una certa idea del bello come “gradevole”, “misurato”, “educativo”, “naturale”, “morale” ecc. L’enfasi sull’idea del “sublime” – in periodo romantico – rappresenta la prima importante crepa in questa visione “tradizionale” dell’estetica. Ci si rende conto che vi è, nell’esperienza artistica, una componente terrificante, uno sgomento: paradossalmente, una “bruttezza”. Kant lo spiega meravigliosamente: “il bello è limitato, il sublime è informe e illimitato, di modo che la mente alla presenza del sublime, cercando di immaginare cose che non si possono immaginare, prova dolore per il fallimento, ma piacere nel contemplare l’immensità del tentativo”. Anche Goethe lo intuisce: “la bellezza ci può trafiggere come un dolore”. Si avvia la decostruzione del grande equivoco del bello “puro e semplice”. Inizia un periodo in cui l’arte ha potuto progressivamente “smascherarsi”, e mostrarsi più direttamente per ciò che davvero è. Ma cosa, questo smascheramento, ci mostra? Quale volto emerge, una volta oltrepassate le narrazioni “funzionali” del discorso artistico? L’arte figurativa più di tutte, forse, ci fornisce un’immagine diretta di questo disvelamento. In tutta la sua traumatica drammaticità. L’emersione dell’urlo munchiano, delle maschere ensoriane, delle ustioni cromatiche fauviste, della decostruzione cubista e astrattista. Una totale perdita di contenimento formale in senso tradizionale, una progressiva apertura della realtà a un altrove interiore. Emerge, al di sotto dello strappo del drappo del formalismo e delle estetiche del passato, l’inconoscibile della posizione esistenziale, la sua radice più sfuggente, inconscia.

E andiamo qui – ex abrupto – alla più convincente “definizione” di bellezza artistica nella quale ci si possa – a mio parere – imbattere. È l’immagine che ci mostra Lacan*: la bellezza è descritta come l’ultimo velo sul reale, inteso come dimensione dell’impossibile, dell’incomprensibile. Come ferita primigenia. E, quindi, come istanza dell’indicibile: la dimensione del “reale” non è un concetto formalizzabile in modo logico-razionale. È piuttosto lo spazio esistenziale profondo in cui il sentimento della mancanza abita. C’è qualcosa di perduto nell’uomo. C’è una “cosa” perduta. Freud si riferiva ad essa proprio chiamandola “la Cosa”, “Das Ding”. L’uomo heideggerianamente “gettato nel mondo” costruisce una trama di sensi simbolici, ma non può “chiudere” il suo stato in una comprensione certa. Vi è qualcosa di inaccessibile, di resistente, di irraggiungibile. La pura coscienza di questo sentire non è mai data all’uomo come possibilità, né sarebbe tollerabile.  Eppure, paradossalmente, si è uomini - nell’autenticità dell’essere - solo accostandosi a questa dimensione, solo percependone l’inaggirabilità. L’avvicinarsi più prossimo che sia possibile, senza rimanerne ustionati, senza precipitare nell’abisso dell’insensato – questa è l’orizzonte della ricerca artistica. Recalcati chiosa magistralmente il pensiero di Lacan intersecandolo con le categorie nicciane: “la bellezza è un velo apollineo che deve far presentire il caos dionisiaco che pulsa in essa”.

Il titolo della raccolta poetica fondativa della poesia moderna, “Les fleurs du mal” simbolizza perfettamente questo approccio. L’arte è un velo di fiorame posto sul male-ferita dell’esistenza. Non vi è negazione del male, né un bene didascalicamente posto in contrapposizione. Vi è invece la possibilità del fiorire artistico intorno alla ferita, ai suoi bordi. Vi è, in questo avvicinamento drammatico, complesso, ambivalente, l’accostarsi alla dimensione autentica dell’esistenza. Vi è la scoperta che la cosa perduta, l’impossibile angoscioso che sottostà ai tessuti simbolici del mondo, apre – attraverso il filtro dell’arte – a una possibilità estrema. Un ineffabile calore che resiste ad ogni definizione, ma forse approssimabile con il termine “consolazione”, recuperandone la radice latina che rimanda a “solus” nel senso di “intero”. Consolation des arts. Ritorno a una interezza perduta, all’antico in cui eravamo inseparati dal cosmo, prima della caduta, della frattura, della “venuta a mondo”. Nella dimensione espressiva, autenticamente respiriamo il senso di una simbiosi smarrita (e mitologicamente fantasticata). Torniamo a casa, potremmo dire, pensando a Novalis. In questo senso l’arte ha un connotato “materno”: ove ci colloca di fronte alla nostra separazione, lì ci consente il ricordo del perduto. Ci apre alla dolcezza rivelante della nostalgia e, in un certo senso, ogni esperienza di bellezza è esperienza di nostalgia. Un approccio “altro” che l’espressione umana non può compiutamente dire, ma che l’arte può lambire nei territori di limine, lungo le giunture delle percezioni, ove uno spessore infinitesimale separa i sentieri del sentire, e apre alla possibilità di sviare dai discorsi inautentici del senso comune.

E il senso comune, la cultura dominante, è la tecnica. Nel mondo intriso dalla sua visione, un discorso di esperienza artistica appare incollocabile. Esso viene immancabilmente fagocitato dalle logiche macchinali, utilitaristiche: derubricato a intrattenimento, decorazione, design, moda, gioco meta-artistico. Le discipline tecniche si accostano al mondo come se esso fosse dato nella disponibilità di una “res extensa”, alla nostra mercé, per essere manipolato, incasellato nei paradigmi riduzionistici della scienza. Un mondo illusoriamente piegato al mito gnoseologico della conoscenza oggettiva. Sedato, anestetizzato al dolore primigenio, alle voci che richiamano a un altrove. La visione dell’arte, questa voce che urla nel deserto – apparentemente astrusa nei suoi codici analogici – è invece davvero inscritta nella concretezza: tenta di guardare alle cose nella loro complessa matrice, inciampando nelle ambiguità, perdendo il conforto oggettivante dei riduzionismi. Verso un “oltremondo nel mondo” dove abita – sfuggente, sussurrante – la dimensione potente e terrificante del nostro esserci. Nell’instante, presenti.

 Elio Scarciglia - Fernando Pessoa in un murales - Lisbona


(*) NOTA: per le nozioni lacaniane ho attinto a varie fonti del web e, in particolare, allo scritto di Massimo Recalcati “Le tre estetiche di Lacan”, e alla conferenza di Alex Pagliardini “La bellezza e la ferita”.


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