Medea oggi
Elio Scarciglia, Napoli (Castel Sant'Elmo), "Dignità autonome di prostituzione"

Medea oggi

diCinzia Caputo

Medea futura regina della Colchide, figlia di Eate, nipote di Circe e discendente del dio sole, si innamora di Giasone l’eroe giunto nelle sue terre alla conquista del vello d’oro, tanto da aiutarlo con i suoi poteri a superare le prove impossibili stabilite dal padre. Insieme fuggiranno inseguiti dal padre di lei, a Corinto.

 Dalla rilettura del mito che ne fa C. Wolf, Medea è una straniera che dopo essere stata una donna potente, rispettata e onorata, si trasforma in un’extracomunitaria priva di diritti, esule e abbandonata dall’uomo a cui ha dato tutto il suo amore, due figli, l’uomo per cui ha tradito patria e legami, e che solo per l’ambizione di salire al trono, decide di sposare la figlia del re Creonte. Giasone, l’eroe aiutato da una donna, senza di lei infatti, non avrebbe mai potuto vincere le prove, è colui che tradisce e abbandona. È in questo contesto di usurpazione e di umiliazione, di un ordine di affetti e di rapporti traumaticamente capovolti che nasce l’idea della vendetta, la più crudele, quella dell’uccisione della sua stessa discendenza.

 Da Aristotele in poi, il sesso pienamente realizzato è quello maschile, mentre il sesso femminile è considerato imperfetto, una deformità. Aristotele nella Generazione degli animali, sostiene che la femmina non produce seme, la sua funzione resta del tutto passiva, mentre il maschio è visto come unico generatore. È questa concezione fallocentrica alla base dell’ideologia della differenza di genere per 2000 anni. Dal punto di vista culturale infatti, non c’è pietra eretta, menhir, obelisco o torre che non parli del Fallo. Dal punto di vista della costruzione culturale, infatti, l’aspetto più importante dell’esperienza compiuta dal maschio nell’azione del pene è di poterne vedere gli effetti.  Colpire un bersaglio è il passo fondamentale per la formazione del concetto di oggetto. Il bersaglio è l’altro da sé, e come tale il non- me.  E poiché il maschio è il portatore del pene, il bersaglio è in prima istanza il corpo della donna, per cui per estensione la femminilità rappresenta tutto il non me, la debolezza, la passività, l’inferiorità, il possesso, la proprietà. È sul potere del maschio che si è fondata la cultura ed egli si è posto come soggetto. Soggetto di vita, mentre ha relegato la donna ad oggetto, ad altro da sé, sconosciuto e quindi equivalente alla morte. Il femminile è natura, e come tale soggetto alla morte. L’immagine della Morte con sembianze femminili, infatti è diffusa ovunque, dallo scheletro rappresentato con i capelli lunghi, alla vecchiezza orripilante dei corpi femminili. Seguendo questa linea del discorso si può facilmente comprendere come lo sguardo della madre sia diverso all’origine, a seconda che il figlio sia maschio e quindi narcisisticamente investito, in quanto oggetto desiderato, oppure femmina, e quindi svalutabile, in quanto rispecchia l’immagine che ella ha di sé stessa.

Dalla psicologia junghiana sappiamo invece, che non è la donna evirata che deve femminilizzarsi, ma è il maschile che deve differenziarsi dalla grande madre, un io che deve risvegliarsi da un matriarcato, inteso come il mondo interno delle dee madri. Le recenti scoperte sui graffiti del paleolitico confermano un origine matriarcale in cui la relazione anche sessuale non era fondata sul ratto e lo stupro come le immagini mitiche che fondano la culla della nostra cultura, in particolare  greca, attestano. L’immagine archetipica che corrisponde alla Grande Madre, simbolicamente contiene in sé la  madre e la  figlia, ossia possiamo dire, che , nella psiche preesistente  ogni madre contiene in sé la propria figlia e ogni figlia la propria madre,  dove ogni donna si amplia per un verso nella madre e per l’altro nella figlia. Da ciò nasce il senso della continuità della vita attraverso le generazioni.  

Il materiale archetipico che si esprime attraverso il mito, ha una funzione compensatoria rispetto alle idee e ai valori del conscio collettivo, e per questo può offrire un nuovo orientamento   ai problemi che il mondo della cultura dominante   non sa affrontare.   Il mito,  in questo caso, che possiamo  utilizzare per riconoscere la costellazione nella quale l’uomo e la donna si trovano quando la violenza esplode è appunto,  quello di Medea.  In cui, capovolgendo il quadro è quello che spesso accade all’uomo quando sperimenta l’abbandono da parte della donna; egli lo vive infatti, come un tradimento totale, come la cacciata dal paradiso terrestre. Un sovvertimento cioè del diritto, qualcosa che non ha mai sperimentato prima, nella relazione con la madre e che non gli permette di mettere in dubbio o in discussione la sua potenza, o il suo diritto di essere amato, e pertanto dà per scontata l’idea di dover essere amato allo stesso modo, cioè incondizionatamente dalla propria compagna. Medea ci racconta attraverso la tragedia di Euripide, di un nucleo di amore e morte, rabbia e disperazione che ancora attraversa la relazione tra maschio e femmina e che riempie le pagine di cronaca nera ogni giorno, dando notizia di femminicidi. Ci auguriamo che in futuro il quadro attuale, ancora così disperante, possa cambiare. Se infatti, le donne prendono coscienza dell’immenso potere che possiedono, che non è meno e non è più, ma è complementare a quello del maschio, potranno allevare le loro figlie libere dal complesso di inferiorità che la nostra cultura ci ha per secoli imposto.


fare l'abbonamento cliccando qui


La lettura di questo articolo è riservata agli abbonati
ABBONATI SUBITO!
Hai già un abbonamento?
clicca qui per effettuare il login.

Commenti

Lascia il tuo commento

Codice di verifica


Invia

Sostienici