Nel dedalo delle aporie
Alessandra Gasparini, la vita degli animali

Nel dedalo delle aporie

diLucio Macchia

Ho scritto, nell’ultimo anno e mezzo, una serie di articoli per Menabò, che hanno riguardato il tema della “teoria del poetico”, ovvero un’indagine, condotta con gli strumenti della filosofia e della storiografia letteraria, su cosa la poesia sia, e che ruolo svolga, e come si inserisca nei discorsi umani. Inoltrarsi in tali argomenti è, però, sempre un incedere in un dedalo senza uscite, abitato più dall’antinomia che dalla coerenza, più dalla frammentazione che dall’unità. Un dedalo di auto-contraddizione, un labirinto di aporie. Ciò non può, d’altra parte, sorprendere, poiché il discorso della lirica è discorso “dell’oltre”, del superamento dei limiti delle visioni correnti. Sfugge alla logica, alla unitarietà dei sistemi di pensiero. Abbraccia l’umano nella sua totalità e, in tale approccio, non può che trovare il segno irriducibile della contraddizione. Ricordiamo Whitman: «Do I contradict myself? / Very well then I contradict myself, / (I am large, I contain multitudes)». Mi rendo conto, quindi, che i miei articoli si snodino inevitabilmente in questa temperie, e vorrei, e credo sia utile, in questo scritto, riassumere – di tali aporie – gli aspetti più rilevanti. La prima aporia la incontriamo immediatamente, non appena ci accostiamo al linguaggio. È, a ben guardare, un inciampo che riguarda ogni gesto linguistico, non solo la poesia. Ma questa ne è colpita con maggior vigore, poiché il suo affidarsi al linguaggio è totalizzante. L’aporia consiste in questo: nel linguaggio risiede un nucleo di inafferrabilità. Heidegger ce lo ha mostrato con chiarezza. Il linguaggio non è definibile, anzi è lui a definirci. Contrariamente a ciò che tendiamo a credere, non lo parliamo ma “ne siamo parlati”. Il linguaggio, ci insegna Heidegger, è irriducibile ad ogni definizione. Accostarsi ad esso è come accostarsi ad un abisso, e il gesto del parlare è un lasciarsi – in tale abisso – cadere. «Il linguaggio è linguaggio. Il linguaggio parla. Se ci lasciamo cadere nell’abisso evocato da questa affermazione, non precipitiamo nel vuoto. Cadiamo in un’altezza, la cui altitudine apre una profondità»[1]. Questa profondità evocata da H. è forse il luogo della poesia. Un luogo di estasi e precipizio. «La parola pura del parlare mortale è la parola della poesia»[2]. Il linguaggio diviene, nella concezione di H., il luogo da cui scaturisce la possibilità della parola che sembra risiedere non nell’uomo ma in un “oltre-umano” a cui l’uomo parlando si connette in un collegamento “religioso”: «L’uomo parla soltanto in quanto corrisponde al linguaggio. Il linguaggio parla. Il suo parlare parla per noi nella parola detta…»[3]. Ma questo parlare, questo parlare poetico, dispiega ulteriori aporie. Si presenta privo di linearità, sempre irriducibile. Immediatamente incontriamo un’aporia che possiamo definire “del contenuto”. Sì, la poesia parla. Ma cosa dice? Pensando alla poesia moderna e contemporanea, la risposta viene difficile. Più facile dire cosa non dice, più facile indicare «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (Montale). Non dice il semplice pulsare emotivo tipico di certa tendenza romanticheggiante, né esprime dei concetti in bella forma, come fosse una didascalia di altro. Il suo contenuto non è mai isolabile, è fuso con gli aspetti formali, tenta la via della parola sintetica e viva, tra discorsi parziali e reificanti. È, in senso celaniano, anti-parola, che strappa i fili delle marionette di una certa arte “facile” e decorativa, puntando all’essenziale. Il rapporto forma/contenuto non si risolve. La sua complessità sopravanza la coscienza stessa del poeta, sottoposta alle pulsioni creative inconsce, allo slittamento continuo dei significati non più saldamente trattenuti dalla controparte del significante. La poesia è, in questi termini, oscura. E così deve necessariamente essere. Poiché la chiarezza appartiene ai discorsi parziali, della logica e della tecnica. L’aporia del contenuto risiede in questa intrinseca irriducibile natura di ciò che viene detto e che, al contempo, incessantemente sfugge. Adiacente a questa contraddizione inestricabile del contenuto, è la sua intima prossimità al silenzio. Il dire poetico è più affine al silenzio di quanto lo sia alla parola corrente. Anzi, si può arrivare ad affermare che l’utopia della parola lirica è la pienezza di significato del silenzio autentico. E la vita del poeta, una vita silenziosa[4]. E, in questa complessità di contenuto, aporetico si presenta anche lo stile che sovverte continuamente il linguaggio, lo forza ai limiti dell’incoerenza e dell’assurdo, per renderlo idoneo ad esprimere ciò che non fa parte di quel mondo ordinario e quotidiano che ha informato di sé la lingua. Sempre ai limiti del vocabolario. Forzando, piegando, ribaltando il senso dei termini e strutturandoli in costrutti stranianti. L’aporia di un tale sovvertimento risiede nella contemporanea pretesa di raggiungere il lettore. Convivono due istanze contraddittorie, sempre in tensione tra loro: sovvertire la lingua e comunicare. E, infine, nel prodursi della scrittura lirica, il poeta stesso si trova all’incrocio di forze antagoniste: da una parte pulsioni dionisiache che liberano alla scrittura un materiale informe, sfuggente, inconscio; dall’altra la messa in atto di un insieme di tecniche che elaborano tale materiale, lo consegnano alla struttura della poiesis[5]. In definitiva, la lirica si presenta come un campo di tensioni antagoniste in cui domina, come dicevamo all’inizio, la contraddizione, e dove il poeta inscrive il suo gesto entro un perimetro mai certo, mai stabile. Il lettore si trova, quindi, sotto l’effetto straniante di queste tensioni, trasportato egli stesso nel dedalo poetico. Un labirinto alla Borges, in cui non è data la possibilità di una conclusione, di una vittoria dei discorsi raziocinanti, ma un interminato incommensurabile vagare: «Mai ci sarà una porta. Tu sei dentro/e la fortezza è pari all’universo […] Non attendere l’urto / del toro umano […] Non esiste. Non aspettarti nulla / Neanche nel nero annottare la fiera»[6]. Ma ciò è inevitabile. È intrinseco alla lirica. Non sorprende che autori e lettori spesso si rifugino in scritture meno problematiche e che, tra il grande pubblico, possa andare per la maggiore una produzione più “rassicurante”. Commozione emotiva, impegno civico, narrazione quotidiana. Qualcosa che, insomma, si inscriva in una dimensione in cui la contraddizione, piuttosto che essere il portato espressivo essenziale e inaggirabile, trovi invece una tranquilla – forse illusoria – pacificazione.


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1.  Martin Heidegger, Il linguaggio, conferenza del 1950/51 (testo italiano da In cammino verso il linguaggio, Mursia, 2019, a cura di Alberto Caracciolo)

     2.  Ibid.


     3.  Ibid.

4. Si veda l’articolo che ha proprio per titolo La vita silenziosa.  

5.  Si veda l’articolo Poesia di Dioniso, poesia di Apollo.  

6: Tratto dalla poesia di Borges, Il labirinto (trad. F. Tentori Montalto)



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