Oltre la scrittura poetica?
Gaspare Canino, Le carte girano

Oltre la scrittura poetica?

diLucio Macchia

Oltre la scrittura poetica?

In principio fu il verbo poetico. Possiamo evocarlo come preghiera, canto, inno. Nel tempo tutto questo si è inciso, come segno stabile e duraturo, nella forma della scrittura. Il ruolo antropologico della scrittura, nello sviluppo del pensiero e della storia umana, è smisurato. Ma qui vogliamo rimanere nell’ambito della poesia. Ci preme investigare (in un excursus estremamente rapido e semplificato) come il segno scritto sia sottoposto, in epoca moderna, ad una serie di sovvertimenti, violazioni, innesti, contaminazioni, che lo deformano, lo minacciano, aggredendolo sostanzialmente su due fronti: quello del suono e quello del grafismo. Riportare il segno alfabetico al suono rappresenta una sorta di regressione all’oralità originaria da cui ogni scrittura proviene. In un celebre passaggio del Fedro, Platone indica una sorta di “primato” del parlato rispetto allo scritto, perché nel parlare vi è la possibilità della dialettica, ove invece lo scritto è muto: «I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare […] ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa»[1]. Anche tenendo presente questo passaggio, Derrida muoverà la sua critica al fonocentrismo e la sua idea che solo la scrittura possa trattenere tracce dell’essere e abilitare il successivo lavoro decostruttivo. Al di là delle articolazioni filosofiche sul tema, rimane presente, nel poetico, una tendenza al ritorno alla dimensione orale che, semplificando, si declina lungo due direttrici antitetiche. Da una parte l’azione declamatoria/attoriale (si pensi alla vasta gamma dei reading recitativi) che spesso (ma non sempre) allude a una “democratizzazione della poesia”, ponendo in questione, più o meno indirettamente, i suoi aspetti più oscuri, quegli aspetti in cui la lettura facendosi esegetica, derridiana, con più forza reclama lo scritto. Dall’altra parte, vi è la scelta radicale, “anti-attoriale” di porre in presenza la poesia attraverso la voce, facendo leva su tutti gli strumenti paralinguistici (gestualità, modulazioni, pause, timbrica) in modo alogico e inafferrabile, come esemplificato nell’azione di Carmelo Bene, che si snoda su un piano che supera ogni schema tradizionale: «l’attore sparisce, non esprime e comunica niente: sono sponde di un biliardo in cui va la biglia del linguaggio a tracciare traiettorie che disegnano figure sonore: e quelle figure, sono icone dell’umano»[2]. In ogni caso, è interessante osservare come il gesto stesso del “dire” il testo, chiami in causa la corporeità della fonazione, e quindi inevitabilmente incoraggi a porre il suono e il corpo centralmente nel poetico. Ciò alimenta, quindi, tendenze come la poesia sonora, già sperimentata nelle avanguardie storiche (futurismo, cubismo, dadaismo) e poi sviluppatasi nelle nuove avanguardie dei decenni del dopoguerra, e la poesia performativa, in cui il corpo stesso è incluso nel linguaggio che assume aspetti ginnici e gestuali. Veniamo ora al secondo fronte di questo sintetico excursus: il fronte “grafico”. Già a fine Ottocento, Mallarmé nella sua opera «Un colpo di dadi non abolirà mai il caso», agisce con la collocazione delle parole sulla pagina cercando quindi – ormai alla fine della sua vita – una espressività aggiuntiva rispetto alla pura scrittura. Più tardi è la volta di Apollinaire con i suoi «Calligrammi» mentre, sullo sfondo, si fa strada – parallelamente alle arti figurative – la pratica moderna di frammentazione del tessuto poetico e di apertura verso inserti eterogenei di “pezzi” di linguaggio (si pensi alla produzione di Eliot e Pound). Inoltre, vanno considerati «gli studi e le sperimentazioni di teoria della comunicazione e la pervasività dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare quelli legati alla pubblicità»[3]. Da queste premesse, emergono le esperienze (anch’esse tipiche delle avanguardie dei decenni del dopoguerra) di inclusione del visivo all’interno del testo poetico e di utilizzo grafico della parola. È una tendenza che si indica comunemente come poesia visiva e, nelle sue espressioni più arditamente distaccate dal piano semantico, poesia concreta. Uno degli estremi di questo allontanamento dal significato è la scrittura asemica, nella quale le parole perdono qualunque connotato di significanza originale: permangono come tratti grafici talmente sovvertiti da essere irriconoscibili, da trattenersi sul supporto come segni astratti di tipo pittorico, facendo decisamente slittare la scrittura proprio nell’ambito dell’arte figurativa. Tutte le tendenze menzionate (sonore, visive, gestuali) spesso si intrecciano, generando sessioni articolate, in cui un ruolo determinante è giocato dalla tecnologia multimediale, che catalizza e moltiplica queste forme espressive verso una performance composita, una poesia totale. La temperie culturale, alla base di tutte queste pratiche, è lo “spostamento di attenzione” dai significati astratti alle vibrazioni archetipiche e primigenie dei tessuti significanti sottostanti, riguardati come il concreto su cui porre il focus: una esperienza in sé, in cui il linguaggio non tende, come nella poesia “tradizionale” – pur indirettamente, pur evocativamente – verso la conoscenza dell’oggetto, ma si pone esso stesso come oggetto, come fine, rinunciando – nelle tendenze estreme – a portare l’articolazione verbale verso un qualunque esito, ma indugiando piuttosto nel suo stesso dipanarsi: suono, gesto, visualità[4]. Certamente le esperienze poetiche citate non impersonano sempre in modo radicale questa tendenza, ma la portano avanti con infinite gradazioni, in una continua ricerca di riarticolazione del tessuto formale: siamo di fronte, a ben guardare, ad ulteriori declinazioni del discorso del sovvertimento linguistico, discorso che abita la poesia moderna dai primordi. La novità, qui, è il portare tale atteggiamento “contro” e oltre il segno della scrittura, arrivare, per così dire, a “tagliarne e ustionarne la tela”. Rimane, comunque la si veda, un’esperienza piena di significato, perché spinge la ricerca poetica a stagliarsi su questo sfondo, ancor più consapevole del rischio icariano dell’affidamento al linguaggio, dentro una cultura infittita di giochi linguistici, comunicazione di massa, slogan. E sempre più sollecitata, in ogni ambito, dalle spinte reificanti indotte dal dominio dittatoriale dei codici della tecnica. 


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[1] Passo del Fedro citato in Voce – Il corpo del linguaggio di F.A. Leoni (Carrocci, 2022)

[2] Alessandro Baricco su Carmelo Bene (fonte web)

[3] Dall’articolo Questioni: che cos’è la “Poesia concreta” di A. De Lisa, fonte web

[4] In tal senso, si potrebbe dire che tutte queste scelte espressive hanno una natura “concreta”



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