Maria Antonella D'Agostino - Parallele
Elio Scarciglia - Lisbona

Maria Antonella D'Agostino - Parallele

diEmanuela Dalla Libera

Sono poesie minime quelle di Maria Antonella D’Agostino, testi brevi che si catalizzano attorno a versi succinti, quasi brandelli di carne attorno a un osso, che è l’essenza, dura e inscalfibile, della sua visione del mondo in cui trovano spazio le forme aspre dello sgomento e della disillusione, del desiderio e del sentimento della vanità e della inconsistenza delle cose, dell’inafferrabilità del tempo e dello spazio. Una visione in cui immagini tangibili viaggiano parallele (Parallele, come il titolo) ai sentimenti e alla percezione oscura del vivere, quasi la ricerca di un piano univoco in cui far coesistere l’etereo e il corporeo, a volte scombinandone le direzioni per cercare, forse, una impossibile sintesi. Ne nascono versi così nitidi da sembrare colpi di lama tagliente, così rapidi da creare un travaso immediato, alieno da qualsiasi titubanza, tra “lo scalpiccio delle foglie” e “l’inganno dei giorni”, tra “il dolore” e “la gramigna”. Il tutto inseguendo “l’illusione di un volo”, “la chimera dell’eterno”, a cancellare “il singulto del buio”, per approdare alla consapevolezza amara eppure dolce insieme, quasi una sorta di catarsi affidata al parlare poetico e giocata sulle ombre di un sorriso malinconico, del filo che si assottiglia e del permanere del nulla e della falsità, quasi una colpa per non aver cercato abbastanza oltre la dimensione personale dell’esistere. 

Pensieri fulminei scaturiscono da un magma esistenziale che continua a ribollire e trova quiete nella parola poetica attraverso versi scarni e intensi, appaganti nella loro stringatezza, dotati di uno stile asciutto e lapidario a dire le cose come immediatamente emergono alla coscienza dopo aver fluttuato ed essersi incise nella profondità dell’animo, con parole che hanno la forza di uno stiletto, la nudità disarmante e titanica della schiettezza.   

A tutto ciò si fa cornice il tempo, attore di trasformazioni cui si intrecciano sentimenti umani multiformi, generati da dissonanze incolpevoli. Così viviamo “sull’orlo di una pozzanghera” mentre “i pensieri ingrigiscono l’aria” e la bellezza è ingannevole perché ha visto in sé il suo stesso sfiorire (Maledetto maggio). Restano “sogni lacerati”, la disillusione cupa e dolente, il cinico rinnovarsi del cielo sopra lo stesso dolore in “Il cielo ride del mio tempo”, e tutto naufraga nell’abisso del nulla in cui muore ogni cosa risucchiata dallo scorrere del tempo stesso.

Eppure in tanto grigio dolore, in tanto abisso di nulla, è avvertito come possibile, come argine ultimo di speranza, “il tempo del riscatto” quando “le aquile volano alto” e si apre all’orizzonte “un’altra prospettiva”, dove, come Icaro, non si rinuncia a provare a volare perché “forse le rondini mi salveranno dal tuffo nel baratro, forse il falco”. Torna anche però la consapevolezza della propria e altrui ineliminabile inanità, l’invidia e la stupidità germinano a riempire le vene di un veleno di cui sarà necessario svuotarsi (“svuoterò le vene del tuo veleno”), e il silenzio diventa benda di cui ricoprire le cicatrici lasciate dalla rassegnazione, e in cui la tensione al divino annulli, nell’invocarlo, la solitudine data dagli uomini (“Signore, sono sola”), e diventi l’abbraccio in cui riporre il minuscolo granello di sabbia in cui consiste la nostra presunta grandezza. 

E ancora una volta la poesia diventa espressione di un bisogno comunicativo che, mentre denuncia lo smarrimento e l’alienazione della condizione umana, quella stessa condizione vuole condividere, esprimerne il senso tragico di partecipazione, tesserne la rete dove si raccolgono le spoglie della bellezza e del dolore. “Lasciami un verso, ti lascerò una lacrima”, perché le lacrime hanno più parole dell’inchiostro. 


Dove s’è perso il filo        

S’è impigliato il tempo 

tra i rovi e le spine. 

Nei sogni lacerati 

ansima dolente 

il respiro della vita. 


Senza permesso

Ricaccio in gola

il rumore sordo

del dolore.

La gramigna dilaga

senza chiedere permesso.


Icaro

L’inganno 

mi ha cucito addosso

splendide ali di cera,

spingendomi nel baratro

con l’illusione

di spiccare il volo. 



Canto alla vita

Canto

alla mia stupidità

che mi dà occhi candidi

per guardare il mondo.

Canto a lei,

la mia stupidità,

che mi fa ancora credere

alla vita, all’amore.

Brindo

alla mia ingenuità

che ancora cerca la bellezza

nella stupidità dell’uomo.

Canto alla vita

e alla mia stupidità

che lava con le lacrime

lo sgarbo di un amico.

Canto e mi dolgo

per la mia stupidità

che mi costringe a respirare

… nonostante tutto. 


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