Poesia come “consapevole scivolamento”
Paola Casulli - New York

Poesia come “consapevole scivolamento”

diLucio Macchia

In principio fu De Saussure. Siamo agli inizi del Novecento, quando lo studioso ginevrino introduce i concetti portanti della semiologia moderna. In particolare, l’idea che il “segno” sia la risultante di due componenti: il “significato” cui esso riferisce e il “significante” con cui lo designa. L’impronta sonora e la scrittura tipografica per “rosa”, indicano, in un rapporto necessario, la cosa stessa: la dicono, traverso una significazione del tutto arbitraria (infatti variabile da lingua a lingua) ma, in un certo ambito idiomatico, univoca. Un’unione intima, stabile, tra le due entità di significato e significante, costituisce la molecola del linguaggio. E, in questa crasi, il significato è tutto sommato egemonico, è il “portato” del gesto della comunicazione, al quale il significante presta semplicemente la modalità “trasmissiva”. 

Negli anni cinquanta, Lacan, nell’ambito dei suoi studi sull’inconscio umano, che lui concepisce “strutturato come un linguaggio”, ripensa questo concetto di segno, ribaltandone la gerarchia. È il significante, a suo parere, il protagonista: il suo ruolo eccede quello del significato. Lo domina, lo relativizza, lo minaccia. La diade cristallina saussuriana assume una costante intrinseca mobilità, che fluidifica il segno stesso, lo induce a “slittare” lungo le trame di significazioni possibili, in una struttura che diviene ambigua, caotica, incerta. Dico “rosa” ma non designo più solo e necessariamente l’oggetto botanico: la complessità del sentire umano, il potere immaginifico della mente, le associazioni legate al vissuto ontogenetico e filogenetico, presentano superfici scorrevoli, lungo le quali il senso trasla. “Rosa” come stratificazione di esperienze passate, come traccia onirica in cui l’inconscio (individuale e collettivo) condensa vissuti conflittuali, simboli fantasmici. 

A questa dominanza del significante possiamo oggi forse rivolgerci per trovare una chiave – certo parziale, non esaustiva – del discorso poetico (ma cosa, in questo ambito, potrebbe mai essere esaustivo?). Possiamo spingerci ad affermare che, ove la poesia ponga sullo stesso piano i due aspetti di “significato” e “significante”, essa non riesca ad emanciparsi dalla rigidità “biunivoca” del segno, e finisca per essere discorso tra discorsi, arte del “bel scrivere”, esercizio di stile, didascalia. Che possa, in tale asfissia semiologica, venir meno, mostrare la sua sostanziale “non necessità”, la sua morte storica di hegeliana memoria. Ove invece essa non faccia resistenza allo slittamento, e ne assecondi le faglie tettoniche delle derive di senso, dando voce all’indicibile della significazione multipla, lì può trovare la sostanza viva del suo agire. Nell’infinito protendersi del linguaggio sull’abisso di se stesso, alla radice dell’ontos originario, in un legame religioso (“re-ligare”) con il mondo, essa può prendere forma come “discorso ultimo”. Heideggerriano disvelante protendersi del dire. 

Si può, quindi, pensare alla scrittura poetica come “consapevole scivolamento” e, in questo lasciarsi scorrere, affidamento a un sentire immediato e totale, tensione a far affiorare la dimensione nascosta, traverso il palesarsi imprevisto e instabile del segno.  Scrive Rimbaud: “l’alba e il fanciullo caddero in fondo al bosco”, e questa immagine, per dirla alla Celan, non s’impone, si espone: le parole s’accendono come varchi attraverso i quali la nostra immaginazione è liberata. Si espongono al nostro desiderio di compenetrazione con il mondo, di esistenza totale nell’istante. La nuda roccia meteoritica del linguaggio, a contatto con l’atmosfera immaginifica dell’espressione, si trasforma in incandescenza, in stella cadente. Il fondo del bosco rimbaudiano accoglie la caduta del tutto: e la luce e il mondo. Non giace – qui – un concetto, una norma. Nulla viene detto, affinché tutto possa esser detto. Perché il mondo incontri il nome, questo deve essere liberato. Disancorato.

Rilke lo illumina nella nona elegia: "Siamo qui forse per dire: casa, ponte, pozzo, porta, brocca, albero da frutto, finestra, – al più: colonna, torre... ma per dire, capisci, oh per dire così come le cose stesse mai intimamente pensavano di essere". Non come le cose “pensavano di essere” (in quanto da noi razionalmente enumerate), non più segni come etichette sulle cose, ma come gesto estremo e libero di re-incantamento. Ne scaturisce – in molti casi – una modalità di scrittura che assecondi l’automatismo, l’inconscio, la libera associazione, “l’illuminazione” rimbaudiana. La poesia è questo spazio aperto per lo slittamento delle significazioni, per il loro scorrere metonimico. Uno spazio bianco che accoglie una bianca scrittura, incolorata dalle tinte forti del discorso “tecnico”, ma invece “trasparente” a un rapporto altro con l’esperienza. 

E non esiste, per tale approccio, una descrizione, non un meta-discorso per questo discorso ultimo sul mondo, il solo – possiamo spingerci ad affermare – che possa consentire all’incostanza del segno di irradiarsi in luce espressiva. “Colui che porta sulle braccia tutti i segni dell’ombra, è caduto sui fiori quadricolori, maculato d’azzurro” ha scritto Eluard. L’immagine eccede ogni dimensione di puro significato. Gli oggetti perdono ogni dato rappresentativo immediato: incidono il foglio, s’impongono come totem espressivo che richiama catene di simbolismi (la cromia, la suggestione dell’azzurro, la dialettica luce/ombra…). Oltrepassamento di ogni modalità meramente “comunicativa” del dire. 

Tra le braccia dei significanti giace la poesia. E questa dimensione della loro complessità ne è certamente una delle direttrici principali, tra le innumerevoli collegate al concetto di significante (tante altre che qui neanche abbiamo sfiorato: si pensi solo alla sonorità, al ritmo). Ma, in particolare, questo muovere cinematografico del senso all’interno del dire poetico, sembra in sostanza imporsi come inaggirabile. Che la poesia possa continuare a esistere come discorso autonomo, tra i tanti discorsi della cultura, solo a queste condizioni? Solo navigando consapevolmente alla deriva nell’oceano della significazione? Solo “affidandosi” allo scivolamento – consapevole – nel linguaggio?



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