Poesia di Dioniso, poesia di Apollo
Elio Scarciglia, Napoli (Castel Sant'Elmo), "Dignità autonome di prostituzione"

Poesia di Dioniso, poesia di Apollo

diLucio Macchia

L’atto della scrittura poetica è spesso percepito come un moto spontaneo, ispirato, una forza creatrice che riversa sul foglio le parole che scaturiscono immediate dai moti dell’animo. In realtà, è estremamente raro che il processo di scrittura di un brano poetico avvenga in modo così “dionisiaco”. Probabilmente solo lo spunto iniziale, l’attacco – per così dire – del brano, può generarsi così. Chi scrive lo sa. A volte una sensazione, un frammento d’idea, un ricordo, un’impressione, possono davvero fornire un movimento di partenza, un nucleo magmatico intorno al quale si sedimenta la composizione. Ma in questa “sedimentazione” interviene la tecnica, la ricerca formale, il calcolo. La poesia, così, sorge dall’elaborazione intellettuale, fredda, precisa, di un moto istintuale dell’anima. L’apollineo interviene e compone plasticamente la materia che il dionisiaco ha portato alla luce. In termini aristotelici, se lo spunto ispiratore è la causa materiale, il lavoro “apollineo” è causa efficiente e formale dell’atto poetico. Soffermiamoci su questa riflessione, partendo da una frase di Valery: «la poesia è un’arte profondamente scettica. Essa presuppone una straordinaria libertà nei confronti dei propri sentimenti. Gli dèi concedono la grazia di un verso: ma poi tocca a noi produrre il secondo, che deve essere degno del suo fratello maggiore soprannaturale. A ciò bastano ancora tutte quante le forze dell’esperienza e dello spirito»[i]. Certo il poeta parte dal materiale “sentimentale” ovvero da ciò che ontologicamente si inscrive nella sua sfera del sentire – sensoriale e mentale. Ma, come genialmente osserva Valery, l’atteggiamento rispetto a questo materiale è “scettico”. È, infatti, estremamente ingannevole ritenere che ciò sentiamo abbia una valenza poetica di per sé. I sentimenti che abitano il nostro ontos individuale sono certo sacri per noi, e sono certamente voci dell’essere che ci pervade, ma la parola, ovviamente, non può comunicarli sic et simpliciter. Tentare di farlo in modo diretto produce spesso una scrittura di natura estemporanea, di puro sfogo diaristico, di commozione auto-riferita, di eccitazione sentimentale. Naturalmente non vi è nulla di male in questo tipo di scrittura, che può sicuramente avere una valenza positiva per chi la mette in atto. La riflessione, qui, è relativa alla distinzione da quella che, invece, è scrittura poetica, sempre che si riesca, in qualche modo, a delimitarne l’ambito (tentativo da considerare sempre con la dovuta prudenza). Appare allora comprensibile l’invito di Valery allo “scetticismo” verso il materiale sentimentale che, per accendersi liricamente, deve essere sottoposto all’artigianalità della scrittura. Valery stesso, recuperando l’etimo greco di poesia come poiesis/produzione, parla di fabrication per indicare il processo di scrittura. Una metodica ricerca di una forma che oltrepassi il sentire specifico e individuale e lo possa rendere – nei limiti del possibile – universale, «poiché solo nella sfera della forma l’uomo diventa riconoscibile»[ii]. Friedrich, nel suo famoso saggio La struttura della lirica moderna, dedica a questo tema un bellissimo paragrafo – da cui ho tratto lo spunto per questo articolo – e la sua posizione è radicale. Secondo lui la poesia moderna ha scelto definitivamente Apollo: il paragrafo lo esprime con forza già nel titolo «Apollo invece di Dioniso». Proprio nella poesia moderna, così libera nella composizione, quasi sempre sciolta dalla metrica tradizionale, l’autore ravvisa la mano organizzatrice di Apollo. Sembra paradossale. Ma ha ragione. Certamente Apollo già “agiva” nella poesia tradizionale, ma lì la sua azione tendeva a risolversi più “pacificamente” in un rapporto tutto sommato stabile tra “contenuti emotivi” e metrica. Nella modernità, quanto più il poeta si immerge negli spazi inconsci e irriferibili dell’interiorità – allontanandosi da contenuti più tipicamente romantici, collegati ai “moti emotivi” e alla commozione – tanto più sente il bisogno di un’organizzazione intellettuale di questa complessa materia, che altrimenti collasserebbe in un caos informe. La posizione è al limite del paradosso: proprio il poeta che, come abbiamo più volte detto, si rivolta al mondo della tecnica, proprio lui assume, nella sua creatività, una sorta di identità di «homo faber»[iii] dell’anima (torna la “fabrication”). Il che naturalmente non può significare intellettualizzazione del processo creativo, o sua razionalizzazione in senso tecnicistico. Significa – insistiamo su questo punto – pervenire ad una forma in cui il palpito dell’essere, al di là dei facili fremiti della commozione sentimentale, possa – ad un livello molto più profondo e complesso del “semplice cuore” – essere ascoltato «in modo che il disordine divenga l’epifania sensibile del mistero invisibile», come scrive ancora Friedrich a proposito di Rimbaud. Anche in questo ambito, come già accaduto parlando di poesia, ci imbattiamo, piuttosto che in una scelta dicotomica – in questo caso tra Dioniso e Apollo – nella esigenza di un difficilissimo equilibrio, che assume scenari di estrema variabilità nella molteplicità di esperienze poetiche che si sono storicamente susseguite fino ai nostri giorni. In generale, operando una semplificazione che si spera chiarificatrice, possiamo riguardare al gesto poetico come situato tra il ribollire di una materia sentimentale/fantasiosa più o meno conscia, e un suo ordinamento formale. Lo sbilanciamento verso una delle due dimensioni porta fuori dal discorso poetico: verso l’ostentazione pseudoromantica di un «sentimento banale»[iv] da un lato, oppure verso una scrittura fredda, in cui prevale l’istanza “accademica” o la tentazione didascalico/esplicativa, dall’altro. Tra questi due estremi, in un luogo segreto tra essi, giace il mistero del poetico: «Oh, se trovassimo anche noi un qualcosa di umano / discreto, esile, una nostra / striscia di fertile terra, tra fiume e roccia»[v].



[i] La frase di Valery, dal saggio sull’Adonis di La Fontaine, è tratta H. Friedrich, La struttura della lirica moderna

[ii] La frase è di Benn, anch’essa tratta dal testo di Friedrich

[iii] L’idea di questo accostamento è in Friedrich, ibid.

[iv] L’espressione è di Friedrich, ibid.

[v] Rilke, seconda elegia



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