La poesia come rivolta
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La poesia come rivolta

diLucio Macchia

LA POESIA COME RIVOLTA


Ogni poesia moderna, fosse pure la più pacata e astratta nei toni, è immancabilmente un atto di rivolta. Intorno a questa affermazione di incipit, così apoditticamente posta, andiamo a tracciare un breve excursus su alcuni aspetti della lirica dei tempi moderni. In tal senso, è estremamente illuminante l’approccio di Hugo Friedrich che colloca, alla sorgente del poetare dei nostri tempi, l’opera di Baudelaire come appunto “rivolta” al discorso della tecnica, rappresentata, a metà 800, periodo di pubblicazione dei Fleurs, dal dominio del positivismo. Noi siamo discendenti di entrambe le istanze: poeticamente da Baudelaire e, come cultura dominante di riferimento, dalla “metafisica della tecnica” in senso heideggeriano. Siamo immersi in una narrazione di centralità della merce rispetto all’uomo e agli dei. L’uomo stesso è prodotto tra prodotti, la sua individualità conformata alle regole degli apparati della produzione, il suo parlare – derubricato a comunicazione – si connota come discorso di efficienza, di razionalità sovrana, di perseguimento del profitto e di dominio sugli enti. «È questo appunto il problema di Baudelaire: come sia possibile la poesia nella società commercializzata e tecnicizzata»[1]. Non si pretende qui di fornire una visione esaustiva di quale sia stata in Baudelaire la formula complessiva di tale risposta: farlo ci restituirebbe un alfabeto di base dell’intera poesia moderna, e ci porterebbe lontanissimo. Si vuole qui accennare al carattere di rivolta che tale formulazione assunse, come recupero di un “dire altro” che ancora oggi è il presupposto essenziale dell’atto poetico. La narrazione dominante, il discorso “della tecnica” viene rifiutato violentemente a tutti i livelli. La realtà stessa, come prodotto di tale narrazione, che riduce il mondo – sotto l’effetto del riduzionismo scientifico – a fenomeno calcolabile, viene riappropriata da una fantasia liberata, che distrugge il rappresentato e lo ricrea recuperandone gli aspetti magici, ineffabili, sfuggenti. La sistematica sottrazione di mistero apportata dalla scienza, il rischiaramento progressivo del mondo, consentono certo il successo e il dominio della tecnica, ma questa finisce per disumanizzare, violentare l’essenza stessa dell’individuo, come viene evidenziato da una serie di pensatori: basti considerare i contributi di Heidegger e il “discorso del capitalista” di Lacan.

Per apprezzare ancor meglio le modalità della rivolta poetica, rivolgiamoci ai poeti successivi a Baudelaire e, in particolare, seguendo la storiografia di Friedrich, ai due filoni stilisticamente complementari che da lui si dipartono. Il primo fa riferimento a Rimbaud e, in questo caso, associare la parola “rivolta” è immediato: «penso a una guerra, di diritto o di forza, di logica del tutto imprevista», «sono della stirpe che cantava nel supplizio; non capisco le leggi; non ho senso morale»[2]. In questi esempi la rivolta è, in un certo senso, “slatentizzata”, ma nella parola rimbaudiana essa è onnipresente nello stile, come sfida alle convenzioni compositive. Si pensi alla famosa poesia «Marina», indicata da Friedrich come primo esempio francese di verso totalmente libero (1872) che fonda un approccio nuovo (e infinitamente ripreso) all’espressione poetica. Il secondo filone baudelairiano è quello di Mallarmé e della cosiddetta “poésie pure”. In questo caso l’aspetto di rivolta non appare così evidente. Mallarmé scrive utilizzando una metrica rigorosa, e uno stile “pacato” (lui stesso, al contrario di Rimbaud, è persona pacatissima nella vita). Eppure, il suo poetare opera un superamento della realtà mediante lo strumento dell’astrazione estrema, dell’evocazione sottilissima di moti interiori indefiniti. «Le pur vase d’aucun breuvage» (il puro vaso di nessuna bevanda) dipinge un’immagine che ricorda l’atmosfera inafferrabile della pittura di Morandi. In sostanza ci si rende conto facilmente che Rimbaud e Mallarmé operano sulla realtà la medesima azione. La distruggono come discorso predisposto dalla cultura dominante, per poterla riscrivere secondo un codice di pura arte creativa. Il procedimento è diverso: Rimbaud aggredisce il reale, lo bersaglia con raffiche di parole e associazioni inusitate, al limite dell’insensato, e sotto questo dardeggiare le cose esplodono come fuochi d’artificio e rivelano nuove prospettive. Mallarmé, al contrario, stende un velo impalpabile sul mondo, e le cose semplicemente svaniscono, lasciando emergere, in trasparenza, una realtà oltremondana. Il suo rigore formale diviene il pensiero calcolante nell’arte, antidoto al pensiero calcolante della scienza.

La poesia, che è poiesis, che è etimologicamente “fabbricazione”, comincia a fabbricare un prodotto agli antipodi della merce industriale, un prodotto “inconsumabile” dirà giustamente Pasolini. In tal modo pronuncia il suo “no” incontrovertibile alla parola della tecnica. Talora in modo delicatissimo, quasi ingenuamente, come in Dino Campana: «Fabbricare, fabbricare, fabbricare / Preferisco il rumore del mare». Altre volte in modo acceso, come nei toni dei surrealisti, che riecheggiano la rabbia rimbaudiana non aderendo più a un modello di umano come «mostro cerebrale» e chiedendo «distruzione della logica fino all’assurdo»[3].

Questa opposizione al reale codificato dai discorsi dominanti è un tratto che sopravvive in ogni autentica poesia, e che invece non è rintracciabile ove la poesia stessa si subordini alle strutture “forti” del pensiero, derubricandosi a “sfogo emotivo/sentimentale” sottomesso al discorso “virile” della tecnica, o a didascalia, ovvero voce della tecnica travestita in forma suadente e ricercata.

Questa natura essenzialmente rivoltosa ha condannato la lirica all’esilio dei discorsi: collocata ai margini, considerata “oscura” perché non rispondente ai costrutti del dire corrente, e di conseguenza progressivamente sottoposta ad un processo di rimozione [4] o alla sua assimilazione da parte delle narrazioni più rispondenti alle logiche dominanti.

Ma la poesia autentica non è ornamento, non è “un discorso tra i tanti”. Si propone un dire estremo, non referenziabile: un totale abbandono al linguaggio. Un gesto sempre al limite tra astrazione intellettuale e comunione religiosa col mondo. Sempre a rischio di smarrimento. Sempre a rischio di follia.


[1]  H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Garzanti 2002 (prima edizione originale 1956)

[2]  Le due citazioni di Rimbaud sono passaggi rispettivamente tratti da “Illuminazioni” e “Una stagione all’inferno”

[3]  Le due citazioni sono rispettivamente di Breton e Eluard, riportate nel testo di Friedrich ibid.

[4]    Si veda, a questo proposito, il mio articolo “La rimozione del poetico”

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