Perché altre parole?
Foto di Elio Scarciglia

Perché altre parole?

diLucio Macchia

Tutti ricordiamo quella famosa scena del film «L’attimo fuggente» in cui agli studenti viene propinata una lezione di poesia basata su un diagramma cartesiano. La cultura “della tecnica” inevitabilmente tenta di fagocitare il discorso poetico, di farne oggetto di un ulteriore discorso. E il primo passo in questa direzione è la “de-finizione”, la chiusura entro confini precisi e certi. Borges, nella prima delle sue «Lezioni americane», chiamato – lui, scrittore di fama – a dire del poetico, conduce un mirabile discorso di “non definizione” della poesia. La evoca, piuttosto, ce la mostra attraverso una serie di “gesti”: esperienze letterarie ed esistenziali, esempi testuali, e un certo modo di procedere e argomentare[i]. Mirabile il suo parallelismo con il passaggio agostiniano sul tempo: «[…] ho una citazione da sant’Agostino che credo faccia proprio al caso nostro. Ha detto: “Cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”. Provo la stessa cosa nei confronti della poesia»[ii]. La poesia resiste ad ogni definizione, ad ogni “meta-discorso”: è parola ultima, parola al limite, su cui non è installabile un’ulteriore dialettica. Heidegger invita a fare «esperienza del linguaggio»[iii], e questa è la parola chiave del rapporto con il poetico: esperienza. Introdurre, invece, una definizione, ci conduce a una sovrastruttura razionale, ovvero a una “estetica”. Inventare estetiche è certamente attività assolutamente lecita del filosofare, ma non inerisce autenticamente al poetico. Non aggiunge nulla, piuttosto costruisce discorsi “nell’intorno”, discorsi che sempre aggirano il nucleo essenziale della poesia, lo sviano. Ancora Borges: «Ogni volta che mi sono immerso nei testi di estetica, ho avuto la sgradevole impressione di leggere le opere di astronomi che non avessero mai osservato le stelle». Da qui Borges muove verso un’idea di poesia che coincide con il vivere, con la gioia: «E la vita è – ne sono sicuro – fatta di poesia». Il suo è un movimento di grande intensità, teso a svincolare la poesia dalle opere letterarie, dai libri. Che sono solo «occasioni di poesia», in cui quel sentire vitale, gioioso trova una sua (ma una tra le tante possibili, vien da dire) realizzazioni. Borges opera una sorta di decostruzione dei miti letterari, per riportare al centro il rapporto vitale con la parola che – morta sui libri – risorge nella relazione diretta con il lettore e con la sua esperienza vivente: «l’arte accade ogni volta che leggiamo una poesia». Questo accadimento nell’istante non può non riportarci di nuovo al discorso heideggeriano dell’evento come rivelazione dell’essere. O al “meridiano” di Celan[iv]. Chi si interroga autenticamente sul discorso poetico (e i poeti stessi in particolare) non definisce, non “estetizza”, non pretende di avere a disposizione una meta-parola per quella parola estrema, quell’ultimo dire che è la poesia. Valery ne parla poetando: «una poesia è una durata, nel corso della quale, o lettore, io respiro una legge che fu predisposta. Io do il fiato e le macchine della mia voce; o soltanto la loro virtù, che si concilia col silenzio»[v]. Torna la “durata” come tessuto del vitale. E l’aderenza a un sapere antico che non trova altra parola. Valery, in questo passaggio, sembra alludere ad un atteggiamento del poeta come “ascoltatore del linguaggio”. Borges esprime un’idea accostabile. Parla di come le poesie siano tutte scritte dall’inconscio umano (come noi moderni chiamiamo, più rozzamente, secondo la «mitologia del nostro tempo», lo “Spirito Santo”, osserva Borges, non senza una certa implicita ironia) al punto tale che «forse sarebbe meglio che i poeti non avessero nome». Questa concezione “vivente” della poesia, tutto questo evocare senza dire, ci appartiene profondamente. Semplicemente, sappiamo che questa è la “verità” del poetico. Anche se sempre ci sfugge la possibilità di definirlo in altre parole. Anzi, sottolinea Borges, l’incapacità di definire è proprio il segno che noi sappiamo. In fondo – a ben guardare – ciò che si definisce, non si sa: lo si oggettivizza, lo si espelle dal flusso del vivere, lo si imbalsama in una idea. Lo si rende “metafisica”, ci suggerirebbe Heidegger. Al contrario, il nostro sapere autentico risiede in ciò per cui non si ha la parola pronta, chiusa, definitiva.  In ciò che resiste all’automatismo comunicativo del dire, e per cui tendiamo a preferire il silenzio (e al silenzio allude anche Valery nel passaggio citato). Questo sappiamo davvero. E la cosa affascinante è che, parlando del limite della definizione in generale (ma avendo in mente la definizione di poesia) siamo giunti al concetto che il sapere giace proprio lì dove il dire “comunicativo” (“tecnico”, per così dire) è impossibile. Ma da quella stessa impossibilità sorge il linguaggio poetico. E così, parlando di come la poesia resista alla sua definizione, abbiamo incontrato, in una sorta di uroboro (come Celan il suo meridiano) il luogo sorgivo della poesia stessa: se potessimo definirla, essa non esisterebbe affatto. Borges è conclusivo: «questo significa che sappiamo che cos’è la poesia. Lo sappiamo così bene, che non possiamo definirla in altre parole, proprio come non possiamo definire il gusto del caffè, il colore rosso o giallo o il significato della rabbia, dell’amore, dell’odio, dell’alba, del tramonto o l’amore per il nostro paese. Sono cose così profonde dentro di noi, che possono essere espresse solo da quei simboli comuni che tutti condividiamo. Perché mai avremmo bisogno di altre parole?». Già, perché? Perché altre parole?



[i] Qui mi riferisco, con una certa libertà, alla differenza tra “dire” e “mostrare” in Wittgenstein

[ii] Questa citazione e tutte le altre di Borges (il virgolettato con caporali, qualora non esplicitamente indicato altro autore, è da intendersi di Borges) sono tratte da: Jorge Luis Borges, L’invenzione della poesia – Le lezioni americane, Mondadori

[iii] Martin Heidegger, L’essenza del linguaggio, conferenza del 1957/58 (testo italiano da In cammino verso il linguaggio, Mursia, 2019, a cura di Alberto Caracciolo)

[iv] Ho affrontato questi aspetti in precedenti articoli dedicati a Celan (Lungo il meridiano, in due parti) e ad alcuni aspetti del pensiero heideggeriano (La poesia come disvelamento e L’albero e il linguaggio)

[v] Tratta dal brano L’appassionato di poesia (traduzione di B. Dal Fabbro)

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