Stefano Iori, I semi dell'incanto
Foto di Elio Scarciglia - Venezia, Carnevale 2018

Stefano Iori, I semi dell'incanto

diEmanuela Dalla Libera

Sono tredici racconti a incidere quasi mezzo secolo di scrittura questi che costituiscono la raccolta “I semi dell’incanto” di Stefano Iori, pubblicati e rivisitati nel tempo o composti in anni più recenti. Tredici storie a delineare un modo di essere e di pensare, di sentire e di sentirsi nel mondo, più spesso in antitesi con esso, deragliati dalle strade della normalità quotidiana o del contesto storico. Storie di uomini e donne, giovani e meno giovani il cui vivere sottende una inquietudine che serpeggia in tutte le pagine, inquietudine che raramente trova soluzione e più spesso finisce in dramma, come se all’esistenza fosse negata la possibilità di sopravvivere a se stessa. Al di là della trama narrativa, sobria ed essenziale, si avverte una inclinazione alla meditazione, alla riflessione su cosa è l’esistere e a quali misteri conduce, a quali tragici enigmi, individuali o collettivi, personali o storici. È come se ogni storia fosse in realtà l’espressione di un profondo desiderio di conoscere, perché “il mondo fuori di noi è un bagno di conoscenza”, di un bisogno quasi doloroso di comprendere, soprattutto quando la vita si colora di anomalia, mentre la normalità è bandita, sembrando essa appartenere alla sfera dell’impossibile. Ciò che emerge pertanto sono sfaccettature della vita e del suo relazionarsi con essa in condizioni diverse, a volte estreme, a voler significare che essa è in realtà un atto drammatico, a prescindere dal sesso, dal luogo in cui si abita e dal credo religioso, anche se quest’ultimo pervade l’impostazione stessa del pensiero espresso in ogni pagina e una certa sostanza di eredità sapienziale viene proclamata (“Nonno Elia, quotidianamente, mi spingeva alla sapienza” in “Fortunato e l’uomo nero”). Perciò l’esistenza può solo diventare più aspra e difficile, più tragica se ai meandri ostili del quotidiano si aggiungono le risonanze fosche di tragedie create da uomini ad altri uomini e credere “alla costruzione della pace” diventa impossibile, mentre  diventa facile “odiare un diverso, uno straniero”. 

La vita si consuma in dolore e mistero dunque, si nutre di parvenze a ricondurci alla dimensione consueta come in “Una notte fuori”, dopo averci però creato disorientamento, averci attratto con malìe in una dimensione inspiegabile. Oppure ci rende estranei in regioni urbane diventate invivibili, come in “Dieci giorni di pioggia”, e per colpa di cataclismi naturali, o perché non ci si riconosce più in noi stessi e fuori di noi. Diventa mistero e turbamento quando si imbatte in incontri casuali e imprevisti che lasciano messaggi nascosti dentro forme bizzarre e impeti che riconducono alla più autentica nostra essenza, quella di tradurre un pensiero, un’emozione, lo stupore di un fatto, in parole, parole che restino, perché siamo noi che vogliamo restare, e perciò sigillate dentro un registratore, pròtesi della nostra effimera voce, perché “ogni parola nasconde misteri e presagi da cui vengono mille illusioni e mille verità” (L’arco del cielo”).  

Per quanto però si tenti di indagare l’oltre da noi, questo a volte rimane indecifrabile, come in “Il vento e il foglio”, e allora non resta che aggrapparsi alle uniche poche parole che ci risultano comprensibili, unica verità inconfutabile in nostro possesso a cui sacrificare il nostro stesso essere, a cui ancora una volta affidare la nostra natura più sacra, ossia la voce che il vento disperde salvaguardando una minima parte da trasmettere ad altri, mentre le cose si dissolvono nella sabbia e nel nulla. 

E poi l’inganno, l’uso strumentale delle cose e delle persone per conseguire fini utili ma moralmente deprecabili, torbido mescolarsi di pochezza e di viltà, che, garantendo a qualcuno il successo o la sopravvivenza, danna l’esistenza di altri che per amore o remissività hanno creduto nella bontà di un gesto generoso, di un dono atto a lenire un dolore, un ricordo traumatico. In “Il museo americano” l’interesse per se stessi diventa cinismo nei confronti dell’altro/a fino a provocarne indirettamente la morte, e fino a, colpevolmente, ignorarla. E ancora, l’inganno diventa totale e diabolico in “Ologramma” dove il terrore di ripetere un’esperienza che ha già lasciato segni indelebili porta alla menzogna estrema, dichiarare di esserci, di essere parte di un tutto drammaticamente condiviso proponendo di sé una corporeità inesistente, invulnerabile e beffarda.

Altri racconti portano alla rappresentazione di esistenze tormentate in cui il disagio psichico (“I silenzi di Madama Butterfly) o la disabilità fisica (Devora dagli occhi spenti) generano l’imperfezione e l’insostenibilità del vivere quotidiano fino ad esasperare la relazione con l’altro, siano essi i genitori, o indifferentemente il resto dell’umanità. L’incapacità di reagire diventa mutismo, isolamento, e questi un ingravescente tormento che sopraffà fino ad avere la meglio. 

Altri due racconti sono mirabili per l’indomita ricerca della verità, la verità storica l’uno, e una verità filosofica, esistenziale l’altro. In “Ragazzi di vita” si ripercorre la vicenda drammatica della morte di Pasolini. Ogni contenuto morbosamente cronachistico viene escluso per dar spazio invece a una serie di dubbi che trascendono l’evento in sé. C’è qualcosa che oltrepassa la realtà così come ci viene proposta, ci sono sfaccettature che sfuggono alla comprensione o rimangono in un limbo di non visto, di non adeguatamente conosciuto, di non riconducibile a una unità di considerazione o di valutazione, perché la realtà è fatta di tempi che cambiano, luoghi che si modificano, voci che si sovrappongono.

Così in “Dialoghi del tramonto”, un’altra realtà viene dipanata in un contesto che si contrappone per bellezza e serenità. Nel fuoco di un tramonto due vecchi amici argomentano tra di loro l’origine e l’ineluttabilità del male. Per quanto si appellino alla tradizione religiosa o filosofica, il problema rimane insoluto e i due amici se ne vanno l’uno dopo l’altro certi che “col male si deve pur convivere”, tanto più se esso è causato dal “delirio di pochi” che “crea la sofferenza degli altri”. Ma anche l’esistenza di questo delirio è inspiegabile perché sembra essere “un dispositivo variabile, mimetico, mutante”. Non resta che “studiare ancora un po’”, certi che la vita non ha tempo sufficiente per donare chiarezza e univoca certezza nelle risposte. 



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