Valerio Succi "SUBCULTURA"
Biancamaria Monticelli, "I giganti del mare", Dimitrios escape, Grecia 2017

Valerio Succi "SUBCULTURA"

diEmanuela Dalla Libera

Lo si potrebbe definire “Dialogo tra un poeta e un bibliotecario” e attribuirgli così i caratteri della filosofica meditazione che caratterizza le Operette Morali. Ma si può evocare anche, nel ritrovamento di fogli difficilmente databili e ancor più difficilmente attribuibili, l’artificio manzoniano del manoscritto anonimo e dotarlo quindi di una veridicità che la mancanza di ulteriori riscontri e una patina di mistero rendono indiscutibile e indiscussa, e di una universalità che trascende lo spazio e il tempo per farsi parte della storia umana. È un testo singolare, questo di Succi, che oscilla tra il saggio che propone argomentazioni rigorose e una biografia sommessa, chiusa dentro la polvere di una biblioteca, nell’aria libera di un chiostro e all’ombra di una palma rievocatrice di storia/e ambiguamente sentite. È una narrazione giocata tutta al presente, la dimensione temporale è univocamente “oggi”, quasi a rimarcare un’unità di tempo perché nulla vada disperso e l’attenzione resti inchiodata non sui fatti (quasi univocamente articolati attorno a un distributore automatico di caffè e l’andirivieni di frequentatori mesti e silenziosi della biblioteca, non casualmente definiti gli “umiliati”, soggetti che rievocano sagome piuttosto che persone, un’idea piuttosto che la sua articolazione in identità diversificate, quasi fossero celati come certe figure di Magritte), quanto sui pensieri che ne nascono. È un muoversi tra scaffali polverosi, libri che giacciono silenziosi da tempo immemorabile e penosi tentativi di rendersi immortali. La prima riflessione segue a un moto d’impeto generato dal senso della vanità del tutto (prendere in mano l’accendino e dar fuoco a ogni minimo libro abitante quest’umile edificio), ma poi il discorso si fa articolato, denso, i libri appaiono frutto del “timore atroce della morte” per sfuggire la quale si cerca “un metodo per scampare alla propria scomparsa”. Si genera pertanto una sorta di complicità/identità tra il protagonista parlante e la Biblio, sentita come organismo vivente, in cui nascono, fermentano e si dissolvono pensieri, aspirazioni, delusioni. Ma con la letteratura, di cui la Biblio è custode, e la poesia in special modo, non si può improvvisare. Se forte è il desiderio di rimanere in vita, (e questo è lo scopo della biblioteca, conservare e tramandare), pur tuttavia la poesia bisogna “averla prima incontrata compresa e aver instaurato con essa un dialogo conciliante, pena il fallimento”. E il fallimento è dietro l’angolo, la fatica rischia di non venire premiata, l’ispirazione tace, “neanche un verso si è espresso”. È un fluire di pensieri che si intersecano alla vita mesta di Bagnacavallo, alla sua provincialità fatta di Madonne ritornate e osannate, un “campanile che frange il rigoroso silenzio”, strade dimesse, e la Biblio, appunto, dove si muovono figure alla ricerca di libri presto dimenticati, stanze di lettura per ragazzi lasciate rigorosamente in disordine, e polvere e volumi dimenticati e malamente riposti. Da questo mondo che sa di muffa e di stantio, emergono però pensieri potenti che sfiorano la diatriba, la querelle su posizioni opposte o difficilmente conciliabili che rievocano passate stagioni. La vera poesia è frutto di fantasia o immaginazione? Cos’è poesia e cos’è invece un testo meramente letterario? Quanto peso ha la tradizione (con la quale instaurare una guerra nelle trincee della metrica classica), l’erudizione, il vissuto personale, l’esperienza di vita? E ancora, si può parlare di autonomia di un testo letterario rispetto all’autore quando chiunque lo legga veda in esso qualcosa di se stesso, ricordi, sogni, desideri, snaturandolo e staccandolo dalla fonte che l’ha generato? E poi la stoccata alla critica, alle recensioni “sconci monologhi”, che sono altro rispetto all’opera, di cui faticano a capire le pene della creazione, perché “come il sogno, della poesia, la critica è altro mondo”. Per arrivare a proclamare una verità che da sempre serpeggia nella storia della creazione poetica: “la poesia sconosce ogni tipo di scopo, né lo pretende” perché “la poesia è la lingua primitiva dell’uomo…più antica della stessa comunicazione. La prima parola proferita da un uomo non era che un verso di poesia, avente come funzione primaria quella di descrivere la vita”.

E in questo filosofeggiare, in questo dibattersi in tentativi di creazione poetica e aspirazione all’immortalità o alla celebrazione (propria o di Bagnacavallo), il ritmo della scrittura si fa incalzante, il pensiero concitato, le parole denotano un uso ironico/iconico, con frequenti paronomasie, allitterazioni, iperboli, rime provocatorie giocate su antitesi concettuali (reazionario/rivoluzionario; deludente/stupefacente) fino a diventare talvolta gioco di termini assonanti in cui trasfondere una narrazione scoppiettante, immaginifica, che non disdegna nemmeno un verseggiare di antico sapore (“divago, mi sento sì vago?”) e in cui prepotente rimane la ricerca dell’universalità e immortalità, non degli uomini, ma delle opere, essendo “la pura poesia capace…di darci i significati…dei prossimi anni e di quelli passati”.



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