Una poesia/La poesia di Giorgio Caproni
Foto di Nicola Perfetto

Una poesia/La poesia di Giorgio Caproni

diLucio Macchia

Dopo gli articoli dedicati a Sereni, Luzi e Bertolucci, esponenti della “terza generazione” poetica italiana, rimaniamo nell’ambito di questa generazione con un poeta che si inserisce, come Bertolucci, nella linea “sabiana” (facendo riferimento alla celebre tassonomia pasoliniana) e che è probabilmente il più noto e “popolare” di questa generazione: Giorgio Caproni.  Tentiamo allora, attraverso “una poesia”, di contattare “la poesia” in questo autore di cui leggiamo un brano straordinario: Il gibbone, tratto dalla sua raccolta Congedo del viaggiatore cerimonioso (& altre prosopopee) del 1965, che Caproni, classe 1912, pubblica nella piena maturità. «Il libro, che funziona, se non da svolta, da spartiacque nella storia della poesia caproniana, registra un significativo incremento di forme oraleggianti e di modalità colloquiali» [1] puntando sulla prosopopea come meccanismo di moltiplicazione delle voci espressive che spinge nella direzione di un superamento dell’io lirico (tema caro a Caproni) in un tessuto testuale che comporta una «fuoriuscita dai confini della lirica» [2].

Ecco il brano.


Il gibbone

A Rina

    

     No, non è questo il mio

paese. Qua 

– fra tanta gente che viene,

tanta gente che va –

io sono lontano e solo 

(straniero) come

l'angelo in chiesa dove

non c'è Dio. Come,

allo zoo, il gibbone.


    Nell'ossa ho un'altra città 

che mi strugge. È là.

L'ho perduta. Città

grigia di giorno e, a notte,

tutta una scintillazione

di lumi – un lume

per ogni vivo, come,

qui al cimitero, un lume

per ogni morto. Città

cui nulla, nemmeno la morte 

– mai, – mi ricondurrà. 

(G. Caproni)


La prima parte del brano si presenta come uno strano “oggetto letterario”. Da una parte un contenuto che è tipico della tradizione lirica moderna da Petrarca a Baudelaire: la figura del poeta come estraniato, esule in una società («tanta gente che viene, tanta gente che va») rispetto alla quale si sente diverso, resecato da ogni possibilità di integrazione. Il Solo et pensoso di Petrarca e L’étranger di Baudelaire sembrano fondersi in queste semplicissime parole caproniane: «io sono lontano e solo/(straniero)». Eppure, d’altra parte, questo contenuto così “modernamente classico” incontra uno stile nuovo: un’espressione diretta, dai tratti vividi, dal tono colloquiale, quotidiano. Le immagini scelte sono quelle di un angelo collocato nella sua “casa” naturale, la chiesa, che però è desertificata da qualunque misticismo in modo disarmante: «in chiesa dove/non c’è Dio». Preciso, diretto, essenziale. E subito dopo l’angelo diventa il gibbone allo zoo, e irrompe così un senso di straniamento ridicolo, di caduta eliotiana di qualunque mitologia. Una scimmia imprigionata, e per di più una scimmia dai tratti ridicoli, una creatura che porta già nel nome un elemento caricaturale all’interno del testo: il suo suono si presenta rimbombante e goffo, esso stesso scimmiesco.

In uno schema di “réalité et ideal”, la seconda parte del componimento vira invece su un altro mondo, un’altra città. Una città ideale. Lo stesso Caproni, riferendosi alla sua poesia, oscilla tra un’ideale interiore e una visione magica della realtà genovese [3]. In ogni caso è la dimensione dell’altrove, è lo scarto dall’ordinario, è il poetico. Questo orizzonte, che irrompe nel brano come già irraggiungibile, è sentito in un singulto corporeo: «nell’ossa ho un’altra città/che mi strugge». E qui vediamo ancora come i movimenti del poeta non giochino astrattamente, ma cerchino sempre un correlativo oggettivo forte: materico, animale, corporeo. La tensione è verso la rappresentazione del contatto con una pienezza che si pone come orizzonte di superamento di quel senso di estraniazione. Ma tale esperienza è data ed è barrata allo stesso tempo. Come già visto per Bertolucci, il poeta abita un orlo in cui intravede ma non trattiene, intuisce ma non stringe. Eppure una visione emerge, di straordinaria potenza lirica, con questa città punteggiata di luci dei vivi, alter ego della città cimiteriale punteggiata di lumi mortuari. La città viva presenta, nell’intuizione poetica, la stessa profonda sacralità del regno dei morti, i due mondi sembrano corrispondersi cosmicamente. Il poeta sfiora un’immanenza assoluta, una esperienza di totalità che non è né della vita né della morte. Questa dimensione, però, rimane inafferrabile, come enfatizzato dal moltiplicarsi di negazioni della chiusa in cui Caproni, «inerpicandosi sulle cime del no» é4*, nega ogni possibilità di presa su questo reale immanente che rimane appena intuito. Un altrove che le parole, in questo capolavoro di “complessa semplicità” indicano in un bagliore epifanico. Un bagliore che illumina e che, al contempo – imprendibile  – svanisce.

______________________


[1]  E. Testa, Dopo la lirica, Poeti italiani 1960-2000 (Einaudi, 2005) p. 21.

[2]   Ivi, qui Testa cita Mengaldo.

[3]  «Ancora Genova potrebbe esser l'altra città del Gibbone, una Genova vista di sera dalla Madonna del Monte. Ma potrebbe anche essere una chimerica città dell'anima. Chissà» (nota di Caproni, fonte web).

[4]  Testa, op. cit. p. 22


Commenti

Lascia il tuo commento

Codice di verifica


Invia

Sostienici